Il film è in bianco e nero ma il sangue è rosso
Il Premio Oscar Bong Joon-Ho ospite del Korea Film Fest 2023
di Luca Mantovani
Quando compare sul palco – accolto da applausi tanto fragorosi, da richiamano lo scrosciare assordante d’acqua che inaugura il movimento conclusivo del suo Parasite – ciò che di Bong Jo-hoo immediatamente colpisce è la corporatura. Non che sia straordinariamente alto o massiccio, ma l’impressione che se ne ricava è lo stesso di una creatura fuori scala. Come di un gigantesco bambino, che si muova fra adulti della sua stessa altezza, con un misto di lieta goffaggine e grazia incosciente.
L’illusione si cimenta nella mia fantasia, quando, poco più tardi, racconterà al pubblico accorso a gremire il Cinema La Compagnia, come l’idea di Okja sia maturata a partire da un’immagine che si è fatta largo da sola nella sua mente: quella di un porcellino alto come un palazzo, che si aggira tutto introverso fra le strade di una metropoli.
Sotto l’etichetta di masterclass, il dialogo che si snoda per un’ora e mezza ha piuttosto (e con gran vantaggio di tutti) il sapore di una lunga chiacchierata informale, al termine della quale l’ospite, i relatori e il pubblico sono a tal punto caldi e acclimatati, che ci si rammarica solo non compaia qualche bottiglia di soju da far passare fra le poltroncine per un brindisi.
Il soju, che sta alla Corea come il sakè sta al Giappone, ha un preciso rituale di consumazione: non ce lo si versa da soli, il bicchiere si rabbocca solo quando vuoto e va afferrato con ambo le mani, se a versare la bevanda è una persona rispettata. Il 6 aprile scorso, al Korea Film Fest, siamo stati incantati ospiti di Bong Joon-ho, piuttosto che il contrario, tutti protesi stringendo a due mani il bicchiere mai colmo della nostra curiosità. Bicchiere che Bong non s’è peritato di riempire, offrendo i suoi racconti e la sua stessa presenza con immediatezza e grande generosità, divertito appena dalle cerimonie che gli venivano tributate, come di uno che ancora un poco s’imbarazzi per una fama capitatagli senza preavviso.
La folgorazione per il cinema, racconta, arriva presto – fra i 9 e 10 anni – quando il regista scopre quasi per caso in televisione Psycho e Ladri di biciclette, i film seminali della sua formazione sentimentale. Di Hitchcock, che lo sconvolge, continua a ricordare il rosso del sangue nella scena della doccia, pur riconoscendo a livello cosciente che il film è girato in bianco e nero, allo stesso modo del capolavoro di De Sica, legato in maniera addirittura fatale alla biografia del Bong bambino che, poco dopo la visione, subisce il furto della prima amatissima bicicletta.
Co-fondatore del suo cine club universitario, Bong studia e dimostra di conoscere bene il cinema italiano, in particolare il cinema politico di autori come Elio Petri e Marco Bellocchio – che incontrerà poi a una cena in cui, per il nervosismo, si limiterà a fissarlo senza proferire parola – ma anche quello contemporaneo, quando cita l’Alice Rohrwacher di Lazzaro felice per come tratta lo sfruttamento del lavoro e la disuguaglianza sociale, temi cari all’autore. L’umile, imbelle mezzadro entra in facile risonanza con gli eroi goffi, marginali del cinema di Bong: il loro candore è il granello imprevisto e tenace che inceppa il meccanismo capitalista [si attribuisca all’autore del pezzo la responsabilità del termine], la loro comicità è del tutto involontaria, nascendo dalla determinazione a compiere le imprese più disperate, addirittura illecite, per uno stato di necessità che le rende ridicole.
Parasite è sicuramente l’esempio più complesso e riuscito, nella cinematografia di Bong Joon-ho, di riflessione sull’argomento: «un film di scale», lo definisce il suo autore, raccontando la precisa volontà di imprimere alla narrazione una verticalità che si faccia messinscena e metafora dei conflitti sociali e delle disparità insite non solo nella società sudcoreana. Bong si mostra particolarmente orgoglioso quando racconta del colpo di scena che, nel film, introduce la terza famiglia “parassita” annidata nei sotterranei: intuizione, questa, che lo ha illuminato solo tre mesi prima dell’effettivo inizio delle riprese.
Proprio l’intuizione, l’ispirazione e il (duro) lavoro di scrittura, sono gli argomenti che finiscono per farsi centrali nella chiacchierata fiorentina. È Bong stesso che interroga il pubblico accorso, chiedendo quante e quanti fra i presenti si occupano di scrivere per il cinema. La folta levata di mani lascia piacevolmente sgomento il regista e, quando il microfono passerà per la platea, la maggior parte delle domande continuerà a spingere in questa direzione. Ironico e divertito, ma non scettico, anzi straordinariamente partecipe («tra voi, sicuramente, c’è chi è destinato a portare avanti la grande tradizione del cinema italiano»), Bong finisce per sciorinare la sua filosofia di sceneggiatore. L’ispirazione può nascere più o meno direttamente da fatti o situazioni reali (Memories of Murder, The Host), oppure sollecitata da singole parole/immagini o concetti astratti (il maialino gigante per Okja, l’idea di infiltrazione e le macchie di Rorschach per Parasite). Tenere ben fermi concetti chiave che aiutino nella stesura dello script; essere gelosi del proprio lavoro e sottoporlo alla lettura di terzi solo in fase avanzata; al contempo, non esserne ossessionati, sono i consigli per non cadere nella trappola della «vita disperata dello sceneggiatore, stremato ancor prima di iniziare a scrivere».
«Io – racconta – spesso sogno di uscire di casa, arrampicarmi sulla collina che sta dietro il mio giardino e mettermi a scavare sotto un albero. A un certo punto trovo una cassa di legno, la apro, e dentro scopro sette sceneggiature già pronte. Mi commuovo tantissimo».