Disastri ferroviari da ammirare: Megalopolis

Una lezione su cosa vuol dire fare arte senza alcun freno

di Marco Triolo

«Ciao, nonno Frank. Come va?»
«Ciao, mia nipote preferita Gia Coppola. Mah, devo dire bene, bene. Son qua che me la spasso nella mia azienda vinicola, che mi ha permesso di smarcarmi dal tran tran del mondo del cinema odierno, troppo rumoroso e volgare per i miei gusti, con tutti ‘sti tizi in calzamaglia e raggi spaziali…»
«Ah, quindi sei andato in pensione e adesso sei un po’ più povero, non hai più a disposizione cash e coca come un tempo, quando rischiavi infarti su set nel sudest asiatico?»
«Hahah, no, scherzi? Il mondo del vino è on fire, non hai idea di quanti scemi vadano matti per il rosso californiano oggi. C’è gente che mi compra le bottiglie persino in Valpolicella! Insomma, sono più miliardario oggi di ieri.»
«Ah, figata, anche se non so cosa sia questa Pappadiciela di cui parli. Senti, vorrei chiederti una cosa…»
«Eh, no! Se sono soldi lascia pure stare. Non vi ho educati a restarvene con le mani in mano aspettando che il vecchio elargisca. Dovete forgiare da soli la vostra strada, col sudore della fronte e un po’ di sano nepotismo vecchio stampo!»
«A parte che devi stare tranquillo, se no ti viene un altro infarto, non era quello che volevo chiederti. La mia domanda è [sblocca lo smartphone, apre Tik Tok]: quanto spesso pensi all’Impero Romano?»
«Io… beh, abbastanza spesso. Sento di rispecchiarmi nel pensiero di Marco Aurelio, “Lo scopo della vita non è stare dalla parte della maggioranza, ma evitare di ritrovarsi tra le file dei folli”. Trovo che sia una fonte di insegnamenti inesauribile, l’ultimo vero filosofo stoic…»
«Uuuufff, che palle nonno! Mi bastava una risposta breve che la devo postare su Tik Tok con l’hashtag #RomanEmpire. Dai, rifacciamola più rapida, su.»
«Ma che vai blaterando, mia un tempo preferita nipote Gia Coppola! Non si può sintetizzare un argomento del genere in pochi secondi e darlo in pasto alla gelida macchina dei social, affinché Chris Ruffalo o Robert Downey Evans ti mettano i likes! Anzi, sai che ti dico, adesso vendo la mia azienda vinicola a qualche miliardario cinese sprovveduto e coi soldi ci finanzio un film! Hashtag: #FrancisIsBack.»
«Whatever, nonno. Che palle, vado a bullizzare Jason Schwartzman su Instagram.»

Togliamoci subito il sassolino: Megalopolis non è un film riuscito. Certo, se ne è molto discusso e ci sono opinioni contrastanti sia tra la critica che tra gli appassionati, e va benissimo così, perché Megalopolis è l’epitome dell’opera “divisiva”. Ci sono specifici fattori in gioco quando questo accade: da un lato, ci deve essere un nome rispettato, un Autore che in passato ci ha regalato classici o almeno cult. Dall’altro, deve trattarsi di opere riuscite a metà, che contengono cose molto buone – dovute, ancora, al fatto che chi dirige non è esattamente l’ultimo cretino – accostate a evidenti forzature o cadute di stile. Mettiamoci anche che spesso si tratta di film realizzati con grande libertà, o in contrasto con studios che abbiano tentato in tutti i modi di rimettere in riga la produzione, senza successo.

In Megalopolis le cose belle non mancano: c’è un senso del grandioso che fa sempre piacere rivedere in sala, c’è l’ambizione di parlare di progresso e futuro sostenibile, un punto di vista interessante per un regista di 85 anni. C’è in generale il senso di stare vedendo un kolossal con ambizioni d’altri tempi. Accanto a tutto questo ci sono, però, una qualità di scrittura altalenante a volerle bene, con i personaggi che declamano sentenze altisonanti a ogni battuta; effetti visivi non sempre all’altezza delle intenzioni (Megalopolis è costato circa 120 milioni; sembrano tanti soldi, ma sono comunque pochini rispetto ai budget dei blockbuster moderni); e infine scivolate nella retorica incredibilmente naif per uno con l’esperienza di Coppola. La mia scena preferita, ad esempio, è quella in cui, per presentare il protagonista Caesar Catilina (Adam Driver) e far percepire immediatamente al pubblico il suo genio pragmatico, gli si fa dire una cosa come «E se questo sistema di immagazzinamento dell’energia fosse usato anche per diffonderla?», con tanto di minion che fa sì con la testa, ammirato. Tipo quando Benigni e Troisi si facevano grossi davanti a Leonardo Da Vinci dicendo «Ma due più due farà quattro?». Oltre a questo, l’allegoria Roma antica = America di oggi è talmente grossolana che sembra scritta con l’entusiasmo di un quindicenne che ha appena visto Il gladiatore (curioso che Il gladiatore II, appena uscito, faccia lo stesso parallelo).

È come se Coppola avesse avuto una bella idea, un presente alternativo in cui l’Impero Romano è sopravvissuto e ha modellato la società globale a suo modo, ma poi non avesse avuto troppa voglia o pazienza per fare del world building degno di questo nome. Il risultato è un mondo uguale al nostro, in cui semplicemente New York City è chiamata New Rome City. Stop.

Eppure, tutto sommato, Megalopolis è quel tipo di film che sono contento esista, perché ci insegna una valida lezione sul cinema e l’arte in generale, e il rapporto tra artisti e committenza. Si sente spesso parlare di film che sono stati manomessi dalla produzione, strappati ai registi, snaturati. Si sente anche parlare di film che sono venuti bene nonostante le difficoltà. Perché, sì, alla fine l’arte si nutre di ostacoli: sono i limiti a tirare fuori le idee migliori, a stimolare la creatività. Megalopolis soffre di troppa libertà, di non avere avuto alcuna imposizione, diktat, neppure una minuscola nota da parte di qualche produttore. È il parto selvaggio di un regista ultra-ottuagenario che non ha più nulla da perdere, l’espressione più estrema dell’artista che fa arte per se stesso e non per il pubblico. E come tale ha un fascino che va ben oltre la sua effettiva riuscita.