Dietro le tende

L’inconoscibile in Circe

di Simone Coghi

«La verità non è facile da capire. Perché affannarsi a spiegarla?». Con queste parole elusive Delia, la protagonista di Circe, liquida il suo compagno Mario, quando questi cerca di capire cosa la angoscia. Qualunque intrusione nel mondo di ossessioni e dolori di Delia è punita con la morte: a nessuno è concessa la sua totale intimità e il suo oscuro universo rimane inconoscibile. Circe è un film argentino del 1964, candidato all’Orso d’oro al 14. Festival di Berlino, diretto da Manuel Antín e sceneggiato da questi insieme a Julio Cortázar, autore del racconto omonimo da cui è tratto. Cortázar fu uno dei maestri della letteratura onirica e metafisica e i suoi scritti, spesso sperimentali, sono tra i capolavori dello scorso secolo. Circe, pubblicato nel 1951 come parte della raccolta Bestiario, è la storia di Delia Mañara, una giovane donna su cui pende la superstizione di essere una crudele maga: i suoi due precedenti fidanzati sono infatti morti tragicamente, uno per un colpo al cuore sull’uscio di casa di Delia, l’altro suicida gettandosi da un ponte. Il suo nuovo compagno è il protagonista del racconto, Mario, che si rifiuta di credere alle insistenti maldicenze e si avvicina sempre più al cupo mondo di Delia, lentamente separandosi dal suo.

La storia indaga le reazioni della società alla figura archetipica di femme fatale e Antín si assume il delicato compito di trasporla da una forma artistica all’altra adottando una classica estetica noir[1]. Il film utilizza infatti un bianco e nero chiaroscurale, quasi a dare sostanza esteriore agli incubi interiori di Delia e creando un’ambientazione cupa e misteriosa. Il subconscio turbolento di Delia – accuratamente nascosto ai personaggi del film – è invece palesato allo spettatore anche con l’intrusione di costanti e ossessivi flashback delle morti dei due precedenti fidanzati, che contribuiscono a creare un’atmosfera tesa e il sospetto che la storia potrebbe ripetere se stessa.

Il teatro dell’amore fatale tra Mario e Delia è la casa di lei, accuratamente ritratta da Antín come luogo alieno al mondo reale, un universo irreconciliabile con l’esterno, forse antro di una strega o forse semplicemente rifugio di una reietta. «Sei sempre dietro le tende di casa», commenta Mario al loro primo incontro e Delia non lo contraddice: «Sì, tutto il mio tempo dietro le tende. E la gente passa. Il quartiere è così». Delia ha abdicato al mondo esterno e l’unico modo di raggiungerla per Mario è abdicare a sua volta e nascondersi dietro alle tende con lei. Abbandona così amori più semplici, si congeda dagli amici preoccupati e si immerge nel buio mondo di Delia.

Delia altro non è che una reinterpretazione di Cortázar della Circe omerica, episodio che lo scrittore tiene bene a mente scrivendo il proprio racconto. I rimandi a Omero sono spesso sottili e ricercati[2], ma il principale tema che mette in relazione i due scritti è quello del fascino umano per l’ignoto e l’irraggiungibile, l’eterna delusione di chi prova ad avvicinarsi all’Oltre venendo bruscamente fermato prima di poterne cogliere anche solo un barlume.

Mario sembra avere una visione del mondo più profonda dei suoi amici e del vicinato, non si accontenta di credere alle superstizioni e vuole cogliere il senso più profondo di Delia, come Odisseo che vuole conoscere Circe nonostante i compagni spaventati lo mettano in guardia. D’altro canto, però, il film rimane ambiguo e non lascia realmente una risposta alle molte domande: ha ragione Mario nel credere che Delia nasconda qualcosa che solo lui può capire? O la sua è solo una giustificazione, una razionalizzazione posticcia al suo sconsiderato amore per una pazza? In Omero, Circe è l’unica tra le compagne di Odisseo di cui non conosciamo mai i pensieri e Cortázar, fedele alla fonte, non lascia mai spazio a una focalizzazione interna di Delia: al lettore appare frammentata nei vari punti di vista dei personaggi del racconto e la sua vera natura non è mai rivelata. Antín è invece più generoso nel mostrarci l’animo di Delia, riprendendola in lunghe sequenze dove appare come una donna tormentata, grazie anche all’utilizzo degli angosciosi flashback.

L’interiorità di Delia è molto più presente nel film di Antín rispetto al racconto: essa viene infatti ritratta non più come oggetto del desiderio, ma come soggetto. Nonostante, però, questo focus sulla sua psiche, Antín sfrutta il linguaggio cinematografico per suggerire la fondamentale ambiguità di Delia: quando giunge la tormentata domanda di Mario su quale sia la verità, Delia viene inquadrata riflessa in molti specchi: cinque Delia diverse rispondono che la verità è incomprensibile, ma intanto un leggerissimo movimento di macchina, quasi a fare eco alla risposta, ci rivela intelligentemente che la vera Delia era in primo piano, nascosta dietro lo sguardo della cinepresa. Così l’inconcepibile non si compie e anche a Mario sarà negata l’illusione di aver raggiunto l’irraggiungibile: d’altronde, come dichiara Odisseo al termine del canto decimo, non è possibile vedere un dio se egli stesso non lo concede. In un finale quasi lynchiano, un telefono suona insistentemente, mentre Delia sorride inquietante e porge a Mario dei sospetti pasticcini che gli ha preparato. È forse giunta la sua ora, la fine del suo sogno presuntuoso di cogliere l’inafferrabile o, invece, è la rovina della femme fatale, il momento di smascherare la maga malvagia? Ancora una volta la verità non viene rivelata, e, con amara rassegnazione e un senso di irrisolto, bisognerà accettare che il mondo trascendentale rimanga inconoscibile e per sempre chiuso dietro le tende.

NOTE 

[1]Daria Cohen, Vindicating the Femme Fatale in Manuel Antín’s “Circe”, 2014, Dissidences: Vol. 5 : Iss. 10, Article 4

[2]Pietro Verzina, Impiego del mito e paradigmi epici in Julio Cortázar: Circe (1951), 2017, ClassicoContemporaneo 3 – Presenze Classiche, pp. 31-58