Lav e i suoi fratelli
Per una ricognizione breve del cinema filippino
di Luca Romeo
Quando due anni fa, alla Mostra di Venezia, Lav Diaz ha partecipato con un film di “soli” 150 minuti, gli appassionati di cinema filippino scherzavano dicendo che finalmente il maestro asiatico aveva girato un cortometraggio. Già, perché negli anni il regista di Datu Paglas ha sfornato un capolavoro dietro l’altro, sempre spingendosi oltre il minutaggio convenzionale e creando delle vere e proprie opere fiume: Evoluzione di una famiglia filippina, il primo film con cui riesce a far parlare di sé oltre i confini nazionali, supera le 10 ore, Death in the Land of Encantos e Melancholia, premiati a Venezia nella sezione Orizzonti, durano rispettivamente 9 e 8 ore, From What Is Before (Pardo d’oro 2014) e A Lullaby to the Sorrowful Mystery (premiato a Berlino 2016), quasi 6 e 8 ore. Insomma, quando – sempre nel 2016– Diaz si è presentato a Venezia con The Woman Who Left (un capolavoro, va detto, ma di quasi 4 ore di durata) in pochi avrebbero scommesso sul meritatissimo Leone d’oro, punto più alto della sua carriera. Ma se Lav Diaz è a oggi sinonimo di cinema filippino, bisogna ricordare che il paese del sudest asiatico ha una tradizione legata alla settima arte addirittura centenaria e che, prima di Diaz, ci sono stati registi di livello mondiale che vale la pena non dimenticare (o scoprire).
Tra i nomi che circolano sottotraccia in Italia, uno dei più interessanti è quello di Lino Brocka. Attivo soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, il cineasta di Pilar ha il merito di portare opere di assoluto livello a Cannes e a Venezia, riuscendo ad accendere la passione per il cinema filippino in Europa. Di lui ricordiamo in particolare Manila – Negli artigli della luce (1975) e Insiang (1976), recentemente riproposti in Italia grazie alla Cineteca di Bologna e al contenitore Rai Fuori orario. Manila è il capolavoro che non ti aspetti, un concentrato di Neorealismo da un paese sotto dittatura che racconta con crudezza i bassifondi di una città e contemporaneamente dell’anima umana. Il protagonista Julio è un “buono” che si sposta dalla periferia per raggiungere la grande metropoli e, una volta lì, la sua amata. La ricerca diventa presto una lotta, il carattere mansueto di Julio deve fare i conti con la corruzione di una città in forte degrado e il suo ruolo di “buono a tutti i costi” comincia a vacillare. Se con questo film Brocka cattura e sconvolge lo spettatore, Insiang, realizzato un anno dopo, consacra il nome del padre del cinema filippino moderno. Qui la protagonista è una donna, ma ancora una volta si vedono le tracce stilistiche del regista: una giovane che cerca il riscatto sociale e amoroso, una società che la respinge, una psicologia dei personaggi ondivaga, i ruoli di buono e cattivo che si ribaltano fino a confondersi e infine a scomparire. Due film da dieci e lode, senza se e senza ma.
Restando negli anni Settanta, vale la pena citare un altro regista di assoluto livello, Kidlat Tahimik. Nel 1977 esce la sua opera più celebre, Perfumed Nightmare (disponibile sulla piattaforma MUBI) fratello gemello – seppur a distanza geografica e con un anno di differenza – del “nostro” Ecce bombo. Il film di Tahimik, come quello di Moretti, è una sorta di diario politico e ironico su una generazione in cerca del “sol dell’avvenire”, nel contesto filippino confuso con una sorta di “luna dell’avvenire”, dove il protagonista Kidlat (a proposito, il regista è anche attore protagonista e si riserva altri ruoli di pre e post produzione, sempre come l’“autarchico” Moretti) è ossessionato dagli ideali del progresso mondiale, che vedono il loro simbolo nell’allunaggio della missione spaziale Apollo 11. Tra momenti onirici, paradossali e terribilmente realistici, Kidlat si sfila dal villaggio sperduto in mezzo alla foresta, dove i carri trasportano il ghiaccio da vendere alla popolazione come nella Macondo di Cent’anni di solitudine, per realizzare il suo sogno europeo. Il continente dello sviluppo economico accoglie il giovane tra mille aspettative, ma ben presto Kidlat si rende conto che il progresso non è altro che una spinta verso il capitalismo senza scrupoli. Mentre all’orizzonte si vede un sol dell’avvenire di cartone, fasullo e deprimente (come quello di Ecce bombo e siamo sempre lì), Kidlat si interroga sulle differenze tra un paradiso sognato e un paradiso pregato, arrivando alla conclusione, forse, che il paradiso non esiste.
Una sorta di pessimismo cosmico che ritroveremo in Diaz, maestro contemporaneo, che sbrodola il suo disappunto sulle derive sociali del pianeta soprattutto nell’ultimo Genus Pan, il “cortometraggio” di due ore e mezza presentato a Venezia nel 2019 – fortunato chi l’ha visto al Lido, perché nei nostri cinema non è mai arrivato. Sono passati quasi vent’anni dal già citato Evolution of a Filipino Family, ma il maestro non smette di incantare. A quei tempi, il film aveva stupito per la particolarità di riprendere gli attori protagonisti in diversi momenti e periodi della loro vita, un po’ come farà, poco dopo, Richard Linklater in Boyhood. Già in quest’opera Diaz sfodera i suoi marchi di fabbrica: tempi iper-dilatati e piano sequenza poetici, ma spesso interminabili, che tengono il suo cinema lontano dalle grandi distribuzioni e dal grande pubblico. E poi sul cinema filippino si potrebbero scrivere manuali interi. Oltre al re indiscusso Lav Diaz e ai patriarchi moderni Brocka e Tahimik, abbiamo altro materiale da scoprire. Abbiamo Eric Matti, che ha concorso per il Leone d’oro nel 2021, e altri nomi che stanno emergendo come Brillante Mendoza o Siege Ledesma (finalmente una donna). Insomma, cari cinefili, il giro del mondo a bordo della settima arte continua: le Filippine vi aspettano.