Guardare sotto, oltre le rose

Gregory Crewdson, araldo del crepuscolo

di Francesco Lughezzani

C’è una fotografia, senza titolo, proveniente dalla serie Beneath the Roses e scattata nel 2007 dal fotografo americano Gregory Crewdson: ritrae una bambina seduta sul letto mentre scruta oltre l’inquadratura, verso la fonte di una fioca luce che illumina la stanza in penombra. Anche la donna sdraiata nel letto al suo fianco guarda la stessa luce. C’è una profonda tristezza che traspare dallo sguardo di entrambe ed è forse questa tristezza l’unica cosa che le unisce perché lo spettatore – o almeno chi scrive – percepisce una frattura, una divisione che emerge fra le due protagoniste dello scatto, separazione accentuata dall’atmosfera crepuscolare.

Quante suggestioni e ricordi della vita di Crewdson stesso alimentano queste visioni, queste immagini perturbanti che l’autore sviluppa da molti anni nella sua ricerca, traducendole dalle sue onde cerebrali alla pellicola?

Da bambino Gregory accostava l’orecchio allo spazio tra le assi del pavimento di casa per ascoltare quello che raccontavano i pazienti di suo padre, psichiatra di Brooklyn, e questa immagine che lui stesso ricorda potrebbe essere la descrizione perfetta di un suo ipotetico scatto. La sua biografia d’altronde si è intrecciata alla fotografia in modi spesso curiosi: da ragazzo infatti fondò la band The Speedies, che riscosse un discreto successo a New York negli anni Settanta e proprio Gregory scrisse i testi del brano Let Me Take Your Photo, una canzone dalla vita fortunata che qualche anno più tardi venne scelta dalla Hewlett Packard per promuovere le prime fotocamere digitali prodotte per il mercato statunitense.

Quando si osserva uno scatto di Gregory Crewdson una delle prime domande che sorgono è: come ci è riuscito? La sua opera sfugge ai canoni della progettualità fotografica classica e ragiona per singole immagini ascrivibili alla staged photography, una pratica che prevede l’intervento del fotografo al pari di un regista sul set fotografico, organizzato per avere il controllo di ogni dettaglio di luce nella scena. La differenza tra realtà e finzione perde di senso di fronte alla possibilità di entrare all’interno delle narrazioni, spesso ambientate in interni, luoghi solitari al confine tra sonno e veglia, protagonisti di scene collocate al tramonto, dove si muove – o meglio, rimane immobile – un’umanità silente, alla deriva dentro se stessa.

Il suo stile e il suo immaginario così surreale e metaforico ha stretto un legame profondo con il cinema, come dichiara lo stesso autore citando artisti quali Hitchcock, David Lynch o Steven Spielberg tra i suoi numi tutelari, ma anche il melodramma americano degli anni Cinquanta e il cinema horror sono tra i suoi riferimenti. Non è solo alle atmosfere sospese di un pittore come  Hopper che la sua fotografia rimanda quando vediamo una serie come Beneath the roses: nella sua disamina della vita nella provincia americana, del Midwest – luogo in cui all’apparenza non accade mai nulla e il tempo pare fermarsi, abitato da spettri in attesa di un passaggio per l’altrove – c’è molto di Vertigo, Blue Velvet e Psycho, attraverso piccoli dettagli che spesso emergono dalle scenografie quando non vengono esplicitamente evocati dai protagonisti delle sue foto: le stampe in grande formato vanno osservate a lungo per poter avvicinarsi a tutti i dettagli che contengono e a quell’indecifrabile ambiguità di cui sono portatori.

La produzione delle fotografie di Crewdson ricorda quella di un piccolo film: c’è un direttore della fotografia, gli scenografi, gli elettricisti, tutti i tecnici che formano una vera troupe, pronta a calarsi nella complessa alchimia di un set ricostruito in studio o nella complessità di un luogo reale in cui scattare ciò che il fotografo ha visto prima di aver scattato. Tutto il lavoro di un film per una foto, un singolo scatto e viene da chiedersi quanto è importante dunque la narrazione, il contesto e la storia dei personaggi. Lui sostiene di non immaginarseli neppure ma le sue foto sono lì, pronte per essere interpretate, pronte a rivelare un carattere, un’emozione nascosta, un dettaglio che emerge dalla straordinaria ricchezza che riesce a innescare scattando attraverso il banco ottico. Ognuno può immaginarsi i mondi in cui si muovo i protagonisti delle sue foto, e le dimensioni a cui rimandano.

Le sue immagini rappresentano, prendendo a prestito le sue stesse parole, un moment between moments, sono sovente scattate al crepuscolo e proprio per questa natura liminare sembrano  istantanee di un’epifania al margine del nulla che inghiotte la provincia americana e ci ricordano i frame di una pellicola. Un istante registrato a un ventiquattresimo di secondo che ci conduce attraverso la storia. Prima e dopo le fotografie non c’è nulla ed è questa forse la disperazione nella ricerca ossessiva di Crewdson, nei suoi tentativi di plasmare il reale e farlo coincidere, per l’istante di uno scatto, al suo immaginario.

«Alla fine, probabilmente ciò che mi spaventa di più è la realtà. Quando è una rappresentazione, quando è separata dal mondo, diventa più facilmente poetica o bella». Sostiene di voler girare un film, un lungometraggio prima o poi. Suona quasi come una velata minaccia, chissà se lo farà mai.