
Abbiamo ucciso l’horror, lunga vita all’horror
Una retrospettiva della metanarrativa in Scream
di Simone Coghi
Leggenda narra che nel 1994 un giovane e squattrinato sceneggiatore americano, Kevin Williamson, si trovasse a casa di un amico a guardare un documentario a tema serial killer. Resosi conto di una finestra aperta, Williamson – ancora condizionato dalle suggestioni del documentario – viene preso dall’angoscia. Chiude la finestra, va a letto, la mattina dopo viene svegliato da un incubo, et voilà! In tre giorni è pronta la sceneggiatura che darà inizio a uno dei più importanti franchise della storia dell’horror: Scream.
I film partoriti dalle ansie di Williamson seguono sempre una formula simile: un serial killer mascherato, chiamato Ghostface, si aggira per i quartieri della cittadina di Woodsboro mietendo vittime tra i suoi abitanti. I protagonisti decidono solitamente di gettarsi alla ricerca del cattivone mentre questi prosegue imperterrito nella sua scia omicida. Una volta giunti al gran finale, il killer di turno rivela la sua identità e le sue intenzioni e, dopo un immancabile bagno di sangue, viene finalmente sconfitto e la serenità è ripristinata nella cittadina.
La trama sembra quella di un tradizionalissimo whodunit – i gialli alla Agatha Christie, per capirsi – reinterpretato in chiave slasher – un sottogenere dell’horror in cui un killer insegue e uccide i protagonisti (spesso a coltellate). Nulla di sovversivo, in superficie. Ma ciò che ha conquistato i fan di Scream sin dal principio è l’autoconsapevolezza in cui si crogiolano i film del franchise. I vari Scream, infatti, hanno da sempre giocato con i motivi narrativi degli horror, e i personaggi che popolano lo schermo spesso si rendono conto del proprio ruolo drammaturgico all’interno del film stesso. In questo modo, la trama di Scream tenta di elevarsi al di sopra dei regolari slasher – che al tempo stesso omaggia e ridicolizza – commentando e sovvertendo molti dei cliché tipici del genere.

Nel primo Scream (1996), l’uso brillante di artifici metanarrativi e il tono postmoderno creano un clima di costante minaccia: siccome le regole dell’horror sono palesate, il film è libero di infrangerle, creando un’angosciosa atmosfera in cui qualunque perversità è concessa. Scream 2 (1997) alza la posta in gioco: a distanza di due anni dagli omicidi del primo Ghostface, è ora uscita nelle sale cinematografiche di Woodsboro una pellicola che racconta quegli stessi eventi, chiamata Stab. Con questo espediente, il franchise di Scream si intrufola sotto falso nome all’interno del suo stesso universo, permettendo ora ai personaggi di commentare non solo i motivi narrativi degli slasher in generale, ma quelli del franchise stesso, in un esercizio di pura cinefilia e autoreferenzialità. Scream 2 distanzia gli spettatori dalle vicende in atto, costantemente ricordando loro che, tutto sommato, si tratta solo di un film. Allo stesso tempo però, il film crea talmente tanti piani di separazione dalla realtà da far intuire agli spettatori che, tutto sommato, il singolo grado di separazione tra loro e Scream non è poi tanto. Se i personaggi di Scream 2 vengono aggrediti finché guardano Stab, nulla vieta agli spettatori del mondo reale di essere aggrediti finché guardano Scream. Costringendo il proprio pubblico a identificarsi come potenziali vittime, la frattura della quarta parete diventa essa stessa uno strumento di orrore: chi guarda Scream non si sente al sicuro.
Nel 2000, con Scream 3, la serie inizia il suo declino. L’autoreferenzialità del film si fa sentire soprattutto negli sfrontati riferimenti alle politiche di abuso sessuale onnipresenti ad Hollywood che, considerando la produzione targata Weinstein, in retrospettiva fanno rabbrividire più delle efferatezze di Ghostface. Ma è con la scena iniziale del quarto capitolo che la serie raggiunge il suo apice di ironia postmoderna. Il film si apre con tutti i cliché di uno Scream: due ragazze indifese chiacchierano di horror, un individuo minaccioso telefona, invade casa, le uccide a coltellate – titoli di testa. Ma, colpo di scena! Il titolo che appare a schermo non è Scre4m, bensì Stab 6: l’inquadratura zooma indietro, rivelando che la scena appena vista era in realtà un film guardato diegeticamente da due ulteriori ragazze. A questo punto una delle due ragazze accoltella l’altra senza preavviso – e via di nuovo con i titoli di testa. Ma di nuovo – sorpresa delle sorprese – non esce il titolo di Scre4m, bensì quello di Stab 7, e solo dopo questa pantomima le vicende di Scre4m finalmente prendono avvio.
La scena è un trionfo di nichilismo autoironico: nulla è reale, tutto è una parodia di qualcos’altro e l’unica consolazione è la consapevolezza dell’assurdità di tutto quanto. Il franchise ascende così alla più totale post-post-post ironia, innalzandosi nella sua torre di cristallo metanarrativa, però cosa si lascia alle spalle?

Il franchise rappresenta un momento distruttivo nella storia dell’horror, in cui ogni dogma è ridicolizzato e annientato. Ma una volta abbandonati i resti agonizzanti degli horror classici, la serie non è stata più capace di iniziare un moto realmente creativo dopo i primi capitoli. A seguito della morte di Wes Craven – regista originale della serie – i film stanno ora subendo un processo di reboot, e Scream (2022) è solo un’eco dei film precedenti, con i suoi soliti pigri paradigmi autoironici e nulla più. Soffocata in un contraddittorio dogmatismo nichilista, la serie tenta paradossalmente di riciclarsi, mordendosi una coda tanto assiomatica e ripetitiva quanto quella degli horror che un tempo avrebbe voluto sovvertire.