
ABBECINECEDARIO: F come Fuoco
F come Fuoco
di Alessandro Faccioli
Che il cinema nasca sotto il segno della luce, favorito da un pugno di sperimentatori e da una famiglia di imprenditori lionesi che la luce ce l’aveva nel cognome, è noto. Se ci si pensa, niente nasce però senza rischi, e uno dei pericoli fondativi per le immagini in movimento è stato il fuoco. Incidenti innocui e disastri epocali, la lista è lunga. Dal Bazar de la Charité di Parigi al Cinema Statuto di Torino. Dagli incendi che periodicamente affliggono le cineteche di tutto il mondo, alle combustioni di depositi dimenticati, in cui vanno in fumo documenti importanti di comunità che dovranno così a fare i conti con un paesaggio costellato di dolorosi vuoti iconici.
Si deve arrivare agli anni Ottanta inoltrati per disporre di una legislazione adeguata. Lungo il secolo passato, in tutta Italia i giornali registrano principi d’incendio nei cinematografi, e decine di disgrazie al tempo delle pellicole infiammabili al nitrato, negli esercizi stabili e in quelli ambulanti. Verona non fa eccezione, quanto a infortuni luminosi. Il 19 agosto 1907 prende fuoco a causa di un apparecchio cinematografico difettoso il Cinematografo Edison, presso il Salone Sammicheli, collocato sotto al Palazzo della Gran Guardia. Al piano superiore si sta procedendo allo spoglio delle schede elettorali e il trambusto provocato è grande. Fa sempre notizia lo spettacolo al quadrato di cinematografi trasformati in teatro di rogo.
E la realtà supera la fantasia a Trani, quando nel 1908, alla festa di San Nicola, nella cabina di proiezione prende fuoco la pellicola a causa di un cortocircuito, proprio quando sullo schermo appaiono immagini dell’incendio di una casa. Nel marzo del 1928 a Moriago, nel trevigiano, muoiono invece in tanti, a causa di un incendio divampato in un cinematografo improvvisato. Consigliati dalle autorità fasciste, i quotidiani esaltano i gesti d’eroismo dei muratori presenti ma a decine vengono schiacciati in prossimità della porta d’uscita.
Non ci sono solo le perdite materiali. Col fuoco anche l’animo può bruciare. Le suggestioni che affiorano dalle fiamme, regalano un ventaglio infinito di possibilità narrative, nei melodrammi che le tematizzano. E il film di Pastrone con Pina Menichelli, Il fuoco, vanta già nel titolo la più scoperta metafora erotica, a tessere una parabola amorosa intrisa di “faville, vampe e ceneri”.
Da “attrazione” visiva a vero e proprio genere nel cinema dei primi tempi, con i salvataggi dell’ultimo minuto di pompieri-eroi. E, nel corso del Novecento, da pretesto drammaturgico il fuoco si fa elemento visivo dalle risonanze emotive profonde, come nell’opera di autori imperdonabili – direbbe Cristina Campo – animati da una passione per la perfezione che la potenza catartica delle fiamme alimenta. Tarkovskij, su tutti.
Il momento privilegiato in cui scatenare l’inferno è il finale di partita. Allora sì che si fanno i conti con quanto è sospeso. Allora sì che si chiude il cerchio della vicenda. Nelle sue riflessioni sul potere, la storia, le masse, e in alcune memorabili pagine d’autobiografia, Canetti è scioccato dalla visione dell’incendio appiccato nel 1927 al Palazzo di Giustizia di Vienna dagli operai in rivolta. Le fiamme sono un elemento di coesione formidabile, centripeto, che caratterizza tumulti, sedizioni, rivoluzioni. La massa accorre e si accalca, bramando di assistere alla rigenerazione dell’umanità. Canetti ne è turbato e affascinato allo stesso tempo.

Io, invece, in piazza o in sala non ho mai sperimentato il brivido di un incendio devastante e del panico che ne consegue. Mi sarei sentito testimone diretto dell’impermanenza della materia filmica, della corruzione dei supporti e dei dispositivi, della fragilità delle immagini. Non c’è infatti storia del cinema senza distruzione. Ero però presente a quella matinée per le scuole di poco più di trent’anni fa, in cui si rappresentava una tragedia greca in un teatro di ricerca a pochi metri da Ponte Pietra. Molti di voi lo ricordano. Sul palcoscenico un lembo di tenda accostato a un braciere ha preso fuoco. In pochi istanti il fumo ha riempito la sala. Domate le fiamme, lo spettacolo è proseguito all’aperto, grazie a improvvisate, brevi rappresentazioni, degne della gloriosa tradizione della commedia dell’arte, tra lo stupore dei passanti e l’ammirazione dei giovani spettatori sloggiati.
A tanto il cinema non sarebbe potuto arrivare facilmente, allora: far proseguire il film fuori dai propri spazi deputati, ri-locato dove non te lo aspetti (come sciaguratamente ha cercato di fare Philippe Noiret, il più famoso operatore di cabina di tutti i tempi), per proiettare, magari sulle nuvole, come osava sperare Zavattini, storie che altrimenti rimarrebbero incompiute, interrotte, tragicamente sospese. Noi ci ritroviamo sempre a tifare per la prosecuzione, per il raggiungimento del traguardo da parte di racconti che possono sì interrompersi ma che non dovrebbero mai fermarsi di fronte al fuoco. Un po’ come succede in Inglourious Basterds di Tarantino, quando il cinematografo zeppo di nazisti viene fatto bruciare, il film nel film continua, la storia si avvia verso la fine, lentamente.