Armageddon Time

Gioco della memoria e ossessione per l’infanzia

di Chiara Zuccari

Negli ultimi cinque anni abbiamo assistito a un progressivo proliferare di racconti autobiografici da parte di autori preminenti nel cinema contemporaneo. Da Alfonso Cuarón, che con Roma conquistò il Lido di Venezia nel 2018, al successivo Dolor y gloria di Pedro Almodóvar, fino ad approdare ai recenti Kenneth Branagh con Belfast, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, l’Armageddon Time di James Gray, fino all’ultimo in ordine di uscita, già pluripremiato ai Golden Globes, The Fabelmans di Steven Spielberg.

La storia sull’origine identitaria dei cineasti si è fatta materia d’indagine e fonte di ispirazione per prodotti più o meno riusciti. Un autobiografismo che spesso si tramuta in ossessione per i ricordi d’infanzia e che rende legittimo interrogarsi sulle motivazioni di questa tendenza. In anni pandemici e quindi in un momento particolarmente critico per il cinema e per il genere umano, si riscontra una possibile traccia in quelle che sono veri e propri viaggi introspettivi, per sublimare l’esperienza trasformativa e traumatica della quarantena. Ecco allora spuntare sugli schermi i Fabietto, i Sammy, i Buddy e i Paul, accomunati da qualcosa di più che l’essere alter ego dei loro registi.

Uno degli aspetti più evidenti in questo genere di film è come il dato privato si intrecci al contesto storico, sociale e culturale del passato, in un gioco di specchi che riflette la situazione attuale. È quello che fa Gray in Armageddon Time, in cui mostra come negli anni Settanta esistesse già un privilegio bianco che attraversava tutti gli Stati Uniti e creava una situazione di disuguaglianza sociale. O Kenneth Branagh, il cui Buddy a nove anni viene per la prima volta a contatto con le tensioni sociali tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord del ‘69. Un aspetto che invece sembra mancare totalmente in The Fabelmans di Spielberg, il cui protagonista attraversa gli anni dell’adolescenza in maniera totalmente disconnessa dagli eventi storici, sociali e politici più significativi dell’America degli anni Sessanta.

Un altro elemento che crea un fil rouge tra queste produzioni è naturalmente la riflessione sul cinema e il suo ruolo più o meno salvifico nella vita di ciascun autore, unico mezzo espressivo possibile per per superare dolori, tragedie, insicurezze in quello che spesso risulta un percorso di catarsi personale. È quello che accomuna il Fabietto di Sorrentino al Sammy spielberghiano: la necessità espressiva, che molto sembra avere a che vedere con una sorta di predestinazione. Ma se per Fabietto il cinema è l’unico mezzo attraverso il quale rielaborare la perdita traumatica dei genitori e ridare senso e dimensione alla sua vita, Spielberg sembra invece riluttante non solo a mettere in scena il proprio dramma domestico (il divorzio dei genitori), centro nodale del film, ma anche a rintracciare in quell’esperienza le origini della sua vocazione. Sammy esiste semplicemente come un giovane di talento, un personaggio di sfondo nella sua stessa storia di origine.

Anche la comune origine ebraica di Paul Graff e Sammy Fabelmans è trasposta in maniera totalmente differente da Gray e Spielberg. Mentre Armageddon Time è un gioco di memoria autobiografico, occasione di riflessione e rilettura della propria storia familiare, attraverso una lente introspettiva scomoda e dolorosa, per il secondo la questione scivola via in una manciata di scene: il confronto tra il Natale cattolico e le tradizioni ebraiche e il bullismo subito da adolescente in California, a cui Sammy/Spielberg non può che rispondere se non attraverso quel cinema salvifico, trionfale e patinato in cui – proprio in The Fabelmans più che in altre sue opere – si è ingenuamente rifugiato. Sammy rifugge il conflitto per non rendersi scomodo, in una ricerca spasmodica di accettazione. E la stessa cosa fa Spielberg, inseguendo per tutto il film il consenso del pubblico.

Quello che troviamo in Spielberg è l’ineluttabilità del lieto fine. Gli eventi traumatici per il regista non sono altro che una narrazione accessoria e contestuale, a differenza di tutti gli altri cineasti, che in misura più o meno programmatica e autentica, davvero mettono il proprio vissuto davanti alla macchina da presa. Gli altri protagonisti pagano le conseguenze della loro presa di coscienza. Sammy no. Sammy si nasconde negli armadi, si confonde tra la folla, non affronta nulla di petto. E le poche volte in cui prova a farlo viene scaraventato a terra. Eppure, alla fine, riesce comunque a raggiungere il tanto agognato successo, che ci viene presentato come inevitabile, raccontato come frutto di un’insita caparbietà di inseguire il proprio sogno più che di un evidente bisogno di riconoscimento. E che in Fabelmans raggiunge il suo vertice nella sequenza finale, prologo di un processo autocelebrativo che poco ha a che fare con il gioco della memoria e dell’autobiografia.

Alla fine, Sammy incontra uno dei suoi autori di riferimento, John Ford, a cui David Lynch (forse tra gli autori più anti-spielberghiani in circolazione) presta volto e corpo. Qui avviene il simbolico passaggio di testimone, la legittimazione totale del cinema di Steven Spielberg, consacrato a erede promettente della classicità hollywoodiana. Il trionfo definitivo e la completa mitizzazione della carriera del cineasta.