Un Chisciotte nella giungla
Hiroo Onoda nel racconto di Werner Herzog
di Michele Bellantuono
«Era stato un sonnambulo, per tutti quegli anni, o aveva sognato, allora, l’oggi, l’adesso? Spesso, a Lubang, si era posto questa domanda. Non c’era nessuna prova che quando era sveglio fosse sveglio, e nessuna prova che quando sognava stesse sognando. Il crepuscolo del mondo». (da Il crepuscolo del mondo, Werner Herzog, Feltrinelli Editore)
Nel 1997 il regista Werner Herzog è in Giappone per collaborare con un compositore. In quell’occasione, Herzog riceve l’invito per un incontro dall’imperatore in persona. Una proposta eccezionale, che tuttavia lui rifiuta. Nel clima di tensione suscitato dalla sua risposta («in quel momento pensai che tutto il Giappone avesse cessato di respirare», rammenta Herzog), qualcuno chiede al regista chi dunque vorrebbe incontrare, avendo rifiutato il più prestigioso degli inviti. Herzog risponde senza indugio: Hiroo Onoda. Il suo desiderio sarà accontentato e da quell’incontro speciale nasce l’idea di raccontare la storia di Onoda in un romanzo, Il crepuscolo del mondo.
Quella di Onoda è una figura storica, nonostante sembri effettivamente nata dalla penna di uno scrittore. La sua storia sfocia facilmente nel mito e il luogo in cui si è consumata sembra sospeso tra sogno e realtà, uno di quegli angoli surreali di mondo che da sempre ammaliano lo sguardo di Herzog regista. Intorno agli ultimi mesi del 1944 il tenente Hiroo Onoda, di stanza presso una base dell’aviazione nipponica nell’isola di Lubang, nelle Filippine, riceve dal superiore l’ordine di restare a difesa del campo fino al ritorno dell’esercito, proseguendo con le attività di guerriglia nell’area. Un ordine che verrà rispettato assiduamente: per 29 anni. Inizialmente ignaro e infine incredulo nei confronti della notizia dell’armistizio giapponese nell’estate del ‘45, Onoda ha continuato a occupare la sua postazione, difendendola dal “nemico” (i civili che abitavano dell’isola) nell’attesa del ritorno delle truppe. Nel corso di questi quasi trent’anni di resistenza e guerriglia, nessun tentativo esterno di informarlo della fine del conflitto ha avuto successo. Volantini lanciati dagli aerei, quotidiani lasciati nel suo territorio, persino disperati annunci al megafono non sono serviti a convincere il soldato. Anzi, sono stati percepiti come misure della “propaganda straniera”, tentativi di traviarlo e distrarlo definitivamente dal compito assegnatogli. Nel febbraio del ’74 un giramondo giapponese, Norio Suzuki, trova Onoda e lo convince a farsi fotografare assieme a lui, come prova della sua situazione. Qualche settimana dopo, su richiesta categorica dello stesso Onoda, sarà proprio l’anziano superiore ad arrivare a Lubang per congedarlo ufficialmente dal servizio.
Herzog è noto per inseguire nei suoi film sentieri e personaggi ai confini del mondo, toccando spesso quel limite che separa il reale dall’immaginario, il documento dalla finzione, che si manifesta solitamente in termini metaforici. Potremmo accostare la sua sensibilità a quelli degli autori del realismo magico, anche se Herzog preferisce parlare di un cinema che mira alla scoperta di una “verità estatica”, racchiusa in una dimensione il cui accesso è evidentemente riservato a registi visionari come Herzog. I suoi documentari sono in effetti la massima espressione di un cinema poetico e suggestivo, in grado di viaggiare contemporaneamente sul binario oggettivo della realtà e su quello della mente, attraversando superstizioni, miti, immagini strappate al sogno o all’incubo. Ne Il crepuscolo del mondo, che è opera letteraria di finzione, non è difficile ritrovare lo sguardo affascinato dell’Herzog esploratore di mondi, rigorosamente da percorrere “a piedi”, secondo la sua filosofia.
L’isola di Lubang, del resto, pare un luogo molto herzoghiano. Una giungla fisica e della mente, un’isola geografica separata dal mondo da una barriera che abbraccia coordinate spaziali e temporali, calando i suoi abitanti in un’atmosfera sospesa in cui il sonno della ragione prevale su ogni logica razionale, in cui la verità storica stessa è messa in discussione, o parte del sogno («dove inizia ciò che è tangibile, reale, e dove inizia il ricordo che ne conserviamo?»). Onoda abita in questa parentesi spazio-temporale; la sua introduzione nel romanzo è l’apparizione di uno spirito, un essere che cammina tra due mondi («il piede appena sollevato era già nel passato, il piede incastrato nel fango davanti a lui, già nel futuro»). Al pari di molti personaggi herzoghiani, quelli che «non hanno ombre, sono come privi di un passato, emergono come dall’oscurità», Hiroo Onoda è l’abitante di un mondo “esterno”; non un folle, ma qualcuno isolato al centro di un mondo dotato di proprie regole, animato da uno spirito donchisciottesco che destina alla sofferenza e al fallimento. Come il “grizzly man” Treadwell, il conquistatore Aguirre, Kaspar Hauser, i coniugi vulcanologi Krafft, tra i più memorabili protagonisti del cinema di Herzog.
«La guerra di Onoda è irrilevante per l’universo, per il destino dei popoli, per il corso della guerra. La guerra di Onoda è l’unione di un nulla immaginario e di un sogno»: nel romanzo Herzog usa queste parole per descrivere la vicenda del soldato, quel sogno durato 29 anni, ricostruendo con l’immaginazione la sua storia, prendendo frammenti di realtà per comporre un racconto mitico, in cui Herzog inscena l’assurda e tenace lotta del protagonista contro il nulla, mantenendosi sempre in una posizione di contemplazione, non di giudizio, o di aperta ammirazione. Non mette Onoda alla berlina, come esempio negativo di miope tenacia militaresca, come molti oggi farebbero. Herzog è un autore incline a mantenere la dignità dei suoi personaggi, talvolta a ricavarne una lezione. Nel caso di Onoda, coglie dalla sua storia lo stimolo per riflettere su quanto una certa dose di finzione e illusione sia parte (necessaria?) della vita di ciascun uomo.