La classe operaia (iraniana) va in paradiso
Il cinema di Shahid-Saless
di Luca Romeo
Anche la classe operaia iraniana va in paradiso? Anni Settanta, nell’Iran più nascosto, in un luogo desolato a metà tra un paesaggio di Van Gogh e la pianura padana rurale di Novecento, vive un uomo anziano con la moglie. Il suo compito, da trentatré anni, è quello di azionare il passaggio a livello che si trova vicino alla sua umilissima casa. Non sa che di lì a poco il regime dello Scià cadrà e non sa nemmeno che presto arriverà una lettera di pensionamento, che per lui è sinonimo di perdita della casa. Questa opera è Still Life, «natura morta», film del 1974 del regista iraniano Sohrab Shahid-Saless. Si tratta di un passaggio fondamentale del cinema neorealista persiano, nell’epoca dei «maestri dei maestri», come potremmo definire quegli autori poco noti in Europa e che hanno fatto scuola a cineasti più celebri, come il sempre più citato Kiarostami o Mohsen Makhmalbaf. Ma anche quelli che noi consideriamo maestri sono andati a scuola e Shahid-Saless è forse il più importante tra gli insegnanti di quella generazione. Nel decennio precedente dall’Iran arrivano capolavori che mettono in mostra la società di Teheran (vedi Mattone e specchio di Golestan) o gli ambienti rurali lontani dalle città (e qui l’apripista è La vacca di Dariyush Mehrjui). Che cosa cambia, allora, con il cinema di Shahid-Saless? La cosiddetta prima nouvelle vague iraniana deve molto alla nouvelle vague per eccellenza, quella francese.
Quando Godard e Truffaut rivoluzionano il modo di fare cinema in Europa, infatti, il giovane Shahid-Saless si trova proprio a Parigi, dove si sta curando per una malattia e dove studia cinema (prima, poco più che ventenne, si era trasferito a Vienna). A inizio anni Settanta, dunque, Shahid-Saless torna in patria con un bagaglio culturale che non può prescindere dalle esperienze del suo “Erasmus” europeo e i primi cambiamenti sono già evidenti in Un semplice evento (1973), primo lungometraggio, non troppo lontano dal clima del neorealismo italiano del dopoguerra. Il marchio di fabbrica di Shahid-Saless è nella camera fissa e nella semplicità dei suoi racconti, due caratteristiche che diventeranno le peculiarità della produzione di diverse generazioni di cineasti iraniani. Non solo: in Un semplice evento il regista inventerà uno stratagemma riproposto spesso e volentieri da altri colleghi nel paese mediorientale, quello di utilizzare bambini come protagonisti per accennare una protesta sociale verso il regime, mascherando il proprio dissenso con, appunto, una «storia di bambini». Una lezione studiata e messa in pratica a più riprese soprattutto da Kiarostami e Panahi nei decenni successivi. Dopo questo lungometraggio, però, probabilmente nella mente di Shahid-Saless frulla un nuovo tema cinematografico, qualcosa di mai visto sugli schermi persiani: la classe operaia. Quella di Elio Petri che «va in paradiso» e impersonata splendidamente da Gian Maria Volonté è uscita nei cinema italiani tre anni prima, quanto basta per immaginare che il collega iraniano l’abbia vista e assimilata. Ma lui non può riprendere le fabbriche nel suo paese, la situazione è molto diversa da quella europea e allora il protagonista diventa un sottoproletario che svolge una mansione altrettanto alienante: passa le giornate a sollevare e abbassare un passaggio a livello che conta una manciata di treni al giorno.
Lo straniamento dell’operaio in Medio Oriente emerge negli scarsissimi dialoghi con l’unica interlocutrice possibile, una moglie che passa le giornate a filare un tappeto che pare interminabile e a preparare cibo e tè. Lui è un sottoproletario brutto, sporco e buono, analfabeta, non sa quanti anni ha e non pare sia un argomento su cui investigare. Lei è una muta servitrice, come Penelope tesse la sua tela, ma l’Ulisse capace di riscattarla non tornerà mai più nella sua Itaca sperduta. Questa classe operaia beve in scodelle che sembrano più adatte a un cane e dorme per terra o su brandine logore. Il suo è un paradiso senza Dio, un paradiso crepuscolare più simile a quello del D’Annunzio decadente di fine Ottocento che a quello religioso del regime che verrà. E il tragico finale è anticipato dalla lettera di pensionamento, che fa sprofondare il protagonista nella disperazione, accompagnato dall’ironico commento del funzionario statale: «Ora puoi goderti la vita». Se Shahid-Saless è un pioniere nel cinema iraniano, lo è anche nella censura del suo governo: dopo soli due lungometraggi (e con un terzo in preparazione) sarà costretto a inaugurare la diaspora delle cineprese dall’Iran all’Europa, continuando il suo lavoro in Germania. Non prima di girare un altro corto satirico, Il bianco e il nero, e mettendo nella valigia, comunque, un Orso d’Argento a Berlino nel 1974 proprio per Still Life. Racconterà di aver potuto girare il suo capolavoro in una situazione estrema, dovuta agli scontri con il governo: undici giorni di riprese e una quantità di pellicola appena sufficiente per girare ogni sequenza una sola volta. Quello che succede più tardi in Iran è noto: la rivoluzione del ‘79, la guerra con l’Iraq e la seconda Nouvelle Vague. Cosa resterà di quegli anni Settanta? Un grande regista, un maestro dimenticato che insieme ad altri nomi poco conosciuti come Amir Naderi (Tangsir e L’attesa sono i suoi titoli di quegli anni) o Parviz Kimiavi (Il giardino di pietre, 1976) ha fatto strada al nuovo che avanza, al pur coetaneo Kiarostami che troverà con la maturità la sua poetica e alla generazione successiva da Makhmalbaf in avanti. Dalla natura morta, insomma, è germogliato un fiore, quello del cinema iraniano.