
CIAK, Si Raglia
Asini, ciuchi, onagri tra cinema e letteratura
di Luca Romeo
Chi l’ha detto che l’asino è stupido? Rispondere a questa domanda è pleonastico: da sempre gli adulti suggeriscono ai bambini di studiare, ché altrimenti si diventa “somari”. No dai, veramente: chi l’ha detto che l’asino è stupido? In effetti l’arte – e il cinema in primis – ci insegna che esistono quadrupedi raglianti molto intelligenti e che, se mai, la parte dell’ignorante, vizioso e scellerato la interpretano gli esseri umani.
L’occasione per parlare di muli, ciuchi o onagri sul grande schermo ci è offerta dal maestro polacco Jerzy Skolimowski, che all’ultimo festival di Cannes si è aggiudicato il Premio della Giuria con il film EO. Protagonista della sua nuova fatica, ça va sans dire, è proprio un asinello e, chissà, magari un lontano parente dell’equino ammirato in quello che forse è il più celebre film sugli asini, Au hasard Balthazar. Il film di Skolimowski, che presto dovrebbe arrivare nelle sale italiane, del resto, è ispirato al capolavoro di Robert Bresson del 1966. Si presume, dunque, che l’asino del regista polacco sia tutt’altro che ignorante, come lo fu quello messo sul grande schermo negli anni della Nouvelle vague.
Ma allora (e lo chiediamo per l’ultima volta): chi l’ha detto che l’asino è stupido? Intanto la premessa è: chi pone questa domanda? La voce è quella di Claudio Bisio, protagonista della commedia Asini, del 1999. L’opera di Antonello Grimaldi, un film godibile ma dimenticabile, è la rivincita di questi quadrupedi “bullizzati” da modi di dire e proverbi. Nella scuola gestita da Arnoldo Foà con Giovanna Mezzogiorno e Fabio De Luigi, infatti, gli animali si fanno simbolo di un “indesiderato” che diventa “utile”.

In effetti la scarsa reputazione degli asini ha un’origine antica. Nei bestiari medievali gli onagri vengono addirittura paragonati al demonio. Su tali antenati delle enciclopedie, infatti, viene sottolineato come già gli egizi avessero notato che a fine marzo – diciamo il giorno dell’equinozio di primavera – gli asini ragliano ventiquattro volte, una ogni ora, per segnalare che quel giorno il dì e la notte hanno pari durata. Chi, oltre al principe delle tenebre, può disporre di tale conoscenza? Chi ha scritto i bestiari, come Philippe de Thaon o Richard de Fournival, aggiunge che l’asino «è stolto per natura» e raglia solo se affamato. Qualche secolo dopo, ancora nel 300, abbiamo un’altra sorta di Wikipedia medievale, l’Historia Plantarum dell’imperatore Venceslao. Qui l’asino ha inedite funzioni curative alla stregua dei medicinali: il suo latte sarebbe ottimo per contrastare il mal di denti e l’asma, il suo sangue mescolato al vino garantirebbe la guarigione dalla febbre e perfino la sua urina, sparsa sulle reti dei pescatori, potrebbe propiziare una buona pesca. Ma forse è meglio se passiamo ad epoche più recenti.
Nel 1600, Charles Perrault scrive una fiaba destinata a rimanere nella memoria collettiva: Pelle d’asino. Qui il ciuco è visto nel contrasto tra la sua bruttezza (già presente nei bestiari) e la sua utilità, anzi, è talmente brutto che la sua utilità diventa un paradosso quasi grottesco. Nella fiaba, infatti, l’asino è la fonte della ricchezza del re, in quanto defeca oro. I cinefili, alla lettura del titolo Peau d’Âne, ricorderanno una splendida Catherine Deneuve nei panni della principessa che, per sfuggire alle grinfie del padre, finirà per fingersi povera e indossare la pelle del medesimo asinello (regia di Jacques Demy). Un secolo più tardi rispetto alla favola di Perrault è la volta dei fratelli Grimm, che utilizzano gli equini selvatici per ben tre novelle: L’asino d’oro (ancora un asino che espelle oro), L’asino insalataro (c’è il tema della metamorfosi in verdura) e L’asinello (una specie di Pelle d’asino con protagonista maschile). Quest’ultimo tris di quadrupedi raglianti ci fa venire in mente un’opera latina, L’asino d’oro di Apuleio, dove la metamorfosi in asino è una punizione scatenata dalla lussuria del protagonista. Proprio l’opera dello scrittore romano-nordafricano anticipa il tema trattato da Bresson e Skolimowski: l’asino non è più un fine (negativo), bensì un mezzo (positivo) per mettere in luce le nefandezze umane.
Certo, poco dopo i Grimm avremmo Collodi e il suo Pinocchio, con cui i ciuchi tornano nella selva oscura dello stereotipo che li vorrebbe stupidi. Anzi, forse è proprio colpa della celebre favola del burattino, se ancora oggi è difficile convincere la società dell’intelligenza che, in realtà, è virtù di questi mammiferi. Apro e chiudo parentesi: ricordiamo tutti il cartone animato Disney, i lungometraggi più recenti di Benigni e Garrone, la storica serie TV di Comencini con Nino Manfredi. Bene, solo nel 2022 ne abbiamo avuti altri due, di Guillermo Del Toro e di Robert Zemeckis: siamo arrivati a circa trenta rifacimenti tra film e serie, forse sono già abbastanza, l’appello ai registi di tutto il mondo è, per favore, cambiamo soggetto.
Veniamo al capolavoro di Bresson, finalmente (tra l’altro disponibile su MUBI). L’asino di Au hasard Balthazar è un animale testimone dei vizi capitali umani, un “oggetto” che passa di padrone in padrone e rimane vittima della malvagità di ognuno di loro. Un asino-Ulisse che vive un’Odissea disperata, se vogliamo. O, magari, un Dante sprovvisto di Virgilio e Beatrice che attraversa l’inferno e la dannazione umane, senza una guida e uno scopo e che alla fine non ha nemmeno la soddisfazione di conoscere la beatitudine del paradiso. All’inizio del film, l’asino ha un rapporto morboso e ambiguo con Marie, la figlia del primo padrone. L’adolescente organizza con lui addirittura un matrimonio notturno, tra le risate degli altri ragazzi, in realtà innamorati di lei (una stupenda Anne Wiazemsky, qui all’esordio, un anno prima di Godard e due prima di Pasolini). Passando dal cinema alla musica, il tema dell’unione tra un somaro e una donna è ripreso tra gli altri da Fabrizio De André, che nel brano Monti di Mola del 1990 racconta della passione tra un giovane e la sua asina. Per il cantautore genovese, che qui canta in gallurese, il matrimonio già stabilito non va in porto non tanto per lo scandalo di un essere umano che sposa un animale, quanto perché – e siamo all’assurdo ioneschiano – i burocrati del Comune scoprono che i due sono cugini e dunque la loro unione comporta un incesto: «ma a cuiuassi non riuscisini / l’aina e l’omu / che da li documenti escisini / fratili in primu».

Se Bresson è il modello di Skolimowski, il modello di Bresson è addirittura Dostoevskij. A detta dello stesso regista francese, infatti, l’asino Balthazar nasce da quello che compare, abbastanza fugacemente, ne L’idiota. L’ingenuo principe Myškin, protagonista del romanzo, lavora per il riscatto dell’animale: secondo lui la vicinanza con questi quadrupedi è addirittura di giovamento per gli umani. Il principe afferma di essersi trovato in un momento di crisi esistenziale e di essere stato “svegliato” dal raglio di un asino, come un’epifania. «tuttavia io sono dalla parte dell’asino – conclude il suo pensiero – l’asino è una persona buona e utile». Chi invece è cattivo e inutile, si vedrà nel romanzo e nel film di Bresson, sono sempre gli umani.
Più di recente, ci sono stati diversi altri film che riservano uno spazio nel cast per questo animale e, per non citarli tutti, ci soffermiamo su un’altra commedia “godibile ma dimenticabile” italiana. Stavolta i fari sono puntati su La bellezza del somaro di Sergio Castellitto. Un vecchio proverbio dice: «La bellezza e il trotto dell’asino durano finché possono», parole che stanno benissimo in bocca a Enzo Jannacci, l’anziano saggio tra i protagonisti del film del 2010. Qui il somaro torna a recitare rappresentando stavolta una metafora della vita umana: il suo passo lento ed effimero ha lo stesso (scarso) vigore della giovinezza, «che si fugge tuttavia» direbbe Lorenzo il Magnifico. Per questo anche l’opera di Castellitto torna utile, non ci dà un asino né troppo buono in quanto vittima dell’uomo sfruttatore e menefreghista, né troppo cattivo e simbolo dell’ignoranza in toto. L’asino di Castellitto esiste in quanto tale, senza etichette. Nasce, cresce e svanisce, come la bellezza e come tutti noi.
E mentre aspettiamo che i grandi schermi italiani possano accogliere EO (se non dovessero accordarsi il distributore e i cinema di Verona, magari lo vedremo proprio al Circolo) andiamo a indagare che cosa dicono le enciclopedie di oggi a proposito degli asini: è un mammifero ed è parente dei cavalli e fin qui ci siamo. Raglia forte, certo, ma non per amore del caos o per parentele sataniche di retaggio medievale, bensì perché i somari sono abituati da sempre a vivere in territori montani e rocciosi e le loro comunicazioni devono arrivare forte e chiaro ai compagni dispersi o nascosti. Si fermano spesso e facciamo fatica a smuoverli, è vero, ma non perché siano cocciuti: al contrario, l’asino si immobilizza perché estremamente riflessivo, non vuole sbagliare la propria decisione, si ferma per vagliare diverse opzioni prima di agire. Nell’Antica Roma, l’onagro (sinonimo di asino) era una macchina da guerra, sintomo che forse già i latini lo rispettavano per le sue virtù. Infine, per riscattare una volta per tutte gli asini: su quale animale Gesù Cristo arriva trionfante a Gerusalemme? E quale, insieme al bue, lo aveva prima scaldato nella capanna di Betlemme? Un asino, of course. Da una religione all’altra: che animale era Yaʽfūr, cavalcato da Maometto e che dialogava con il profeta islamico? So che avete indovinato: sempre un asino.
E, dunque, possiamo tornare alla canzone interpretata da Bisio nei titoli di coda di una commedia italiana di fine secolo. Non ci soffermeremo sulla domanda retorica che apre questo articolo, perché ormai la risposta la conosciamo tutti e il tabù è sfatato. Chiudiamo invece con l’inizio della prima strofa di questa canzone scritta insieme a Rocco Tanica, un verso che sembra uscire direttamente dal ragionamento del principe Myškin: «l’asino è bello e io gli voglio bene».