Le Promesse

Dürrenmatt dal cinema al romanzo e ritorno

di Riccardo Chiaramondia

«Il film corrisponde sostanzialmente alle mie intenzioni; se il romanzo ha preso una strada diversa, ciò non significa una critica all’opera del regista»: così Friedrich Dürrenmatt nelle postfazione di La promessa ha commentato il rapporto tra il proprio romanzo e Il mostro di Mägendorf, film da lui sceneggiato e diretto da Ladislao Vajda nel 1958.

L’affermazione dello scrittore mette subito in evidenza un’anomalia rispetto al classico rapporto tra cellulosa e celluloide: la pellicola, seppur per pochi mesi, è stata realizzata prima della stesura definitiva del racconto alla sua base. Un’operazione di sviluppo parallelo offre la possibilità di riflettere sulle capacità narrative dei diversi media, da intendere in una prospettiva dialogica e non competitiva. Lazar Wechsler, produttore del film, chiese allo scrittore svizzero di realizzare una sceneggiatura che potesse funzionare come strumento pedagogico per sensibilizzare gli spettatori su un argomento delicato come le violenze a scopo sessuale sui minori. Scrivendo Il mostro di Mägendorf Dürrenmatt dovette inevitabilmente tenere conto della necessità di comunicare al numero più ampio possibile di persone e di dare un finale in grado di infondere la speranza che con la giusta attenzione anche «certi demoni» possono essere sconfitti. In questa prospettiva Matthäi, il protagonista, deve essere, nonostante alcune ombre, l’eroe in grado di risolvere le indagini assumendo in sé il ruolo di adulto paterno positivo e redimendo con le proprie azioni il resto dell’inefficiente corpo di polizia.

Nonostante questa necessità produttiva, Dürrenmatt non si è limitato a porre la propria penna passivamente a servizio di uno scopo pedagogico rasserenante, ma ha disseminato la sceneggiatura di forti critiche alla società svizzera lui coeva, mostrando una popolazione ancora fortemente legata ai codici d’onore, alla giustizia sommaria come atto di vendetta e a un malcelato odio verso il diverso, non è un caso che il primo accusato per l’omicidio attorno a cui ruota il film è un’ambulante, figura liminale per eccellenza. A essere fortemente criticata, come detto, è anche la polizia, rea di accontentarsi di una confessione ottenuta con la tortura e indifferente al suicidio di un innocente. Matthäi, allontanato dal commissariato per motivi burocratici, è l’unico a non accettare questa versione, ma i metodi da lui utilizzati, anche se il suo personaggio è stato scelto per diventare l’eroe consolatorio del film, sono controversi e basati sullo sfruttamento e la messa in pericolo di una bambina.

Dürrenmatt è stato in grado di soddisfare le richieste di Wechsler fornendo, però, anche una seconda lettura, maggiormente in linea con il suo pensiero, in cui non esiste un vero positivo, ma un insieme infinito di sfumature grigie dentro le quali è possibile trovare i segni di un’umanità malfunzionante. Nei mesi successivi, portando a termine La promessa, lo scrittore decise di apportate alcuni cambiamenti e trasformò il romanzo in un racconto-saggio in cui, in maniera non dissimile da quanto farà pochi anni dopo Peter Handke con L’ambulante, decostruisce i canoni del romanzo giallo.

In quest’opera Dürrenmatt non lascia spazio alla positività e alla razionalità: tutte le svolte nelle indagini sono legate al caso e il tentativo di Matthäi di seguire la logica, non solo lo porta a sfruttare una bambina, ma lo conduce alla follia. Le deduzioni dell’ex poliziotto sono corrette, ma egli è destinato a soccombere nello scontro con la caoticità dell’esistenza e l’assassino, ancora senza identità, che egli era riuscito ad attirare a sé morirà in un incidente d’auto poco prima del loro incontro. Nessuno a eccezione del protagonista, sempre più alienato dal mondo, crederà che questo criminale sia mai esistito. Il finale è tragico e la negatività viene amplificata dalla beffa del racconto-rivelazione fatto molti anni dopo da una anziana signora informata sui fatti.

Da La promessa sono state tratte due trasposizioni dirette omonime, una miniserie del 1979 diretta da Alberto Negrin e un film del 2001 con la regia di Sean Penn: queste versioni narrativamente sono molto fedeli al romanzo, soprattutto la prima, in cui le pagine scritte da Dürrenmatt vengono ricalcate in maniera pedissequa. La somiglianza, però, non coincide con la vicinanza allo spirito del romanzo. Negrin, mettendo in scena ogni dettaglio dell’opera di partenza, ha realizzato un lavoro privo di apporto personale e non tenendo conto delle diverse specificità dei media ha mantenuto tutte le semplificazioni e i cliché narrativi che nello scritto di Dürrenmatt funzionavano per il loro valore metanarrativo supportato dalle riflessioni del narratore, ma che non si adattano al cambio di linguaggio dovuto alla trasposizione.

Penn, invece, pur mantenendo fissi gli snodi della trama e il finale del romanzo, risemantizza il senso simbolico delle vicende aggiungendo riferimenti al cristianesimo e, trasportando le vicende dalla Svizzera agli Stati Uniti, sceglie di avvicinare La promessa e i suoi protagonisti ai canoni del thriller rurale statunitense. Il film diventa così marcatamente personale, lontano dagli intenti dello scrittore svizzero. Il romanzo di Dürrenmatt nelle due trasposizioni più fedeli ha perso tutto il valore metanarrativo su cui si basa e nel caso del film del 2001 il pessimismo di base, pur venendo mantenuto, passa da una connotazione universale a una strettamente legata al microcosmo sociale in cui si muovono i protagonisti.

Paradossalmente, pur differendo come mostrato precedentemente, l’unica pellicola che condivide a pieno lo spirito de La promessa, grazie anche alla coincidenza di autore, è Il mostro di Mägendorf: per rendere in pellicola lo spirito di un’opera letteraria che fa della metariflessione il suo valore primo e che sfrutta strategie tipiche solamente della scrittura è necessario distruggerne l’impianto narrativo e crearne uno nuovo funzionale al linguaggio filmico.