Time, stop!

Megalopolis e la rifondazione dell’immaginario coppoliano

di Chiara Zuccari

In uno degli 80 livelli di Astro Bot, la nuova estensione del platform per PS5 Astro’s Playroom, tra i vari potenziamenti che può ottenere il robottino protagonista, c’è anche un piccolo cronometro che rallenta il tempo, così da avere la possibilità di attraversare con tutta la calma necessaria impervi crepacci o saltellare su lame rotanti a mo di scalini. Ecco, il Cesar Catilina di Adam Driver in Megalopolis “ferma il tempo” (“Time, stop!”, lo sentiamo pronunciare nella scena di apertura del film) proprio come il protagonista del videogame. Il personaggio interpretato da Driver è un architetto visionario, vincitore di un Nobel per aver inventato il megalon, un materiale futuristico (forse proprio quella materia di cui sono fatti i sogni? D’altronde le citazioni shakespeariane sono cosa nota a Coppola) imperituro e iridescente, con cui ricostruire (o meglio, rifondare…) New Rome, in aperto contrasto col futuro suocero e sindaco della città Cicero (interpretato da Giancarlo Esposito, col senno di poi, una sorta di doppio del Macrino di Denzel Washington ne Il Gladiatore II). A distanza di diversi mesi dalla visione cannense (durante la quale un attore è salito sul palco per porre una domanda al Driver sul grande schermo, rompendo la quarta parete – quante altre parentesi si potrebbero aprire sull’aspetto multiversale di Megalopolis… -, ma soprattutto “sospendendo” il tempo del film, si ritorna sempre lì…), e poco dopo l’uscita al cinema del sequel firmato da Ridley Scott, sembra quasi scontato trovare punti in comune tra i due film, in aperto dialogo tra loro. Certo, la rosa onomastica pesca direttamente dai sussidiari di storia, e in particolare dalla congiura ordita dal nobile Catilina a scapito del senato romano, sventata dal console Cicerone.

La Storia però è solo un pretesto, un’intuizione di cui sfruttare la traccia per costruire un nuovo mondo, una nuova mitologia. Ritroviamo quella magniloquenza, quell’esagerazione, la cieca utopia della purezza dell’immagine, capace di ampliare, di superare il pensiero e farsi apparizione, più che rappresentazione. Forse per questo Megalopolis è stato così ostico da affrontare per alcuni, volutamente elusivo, mutevole, metamorfico, impossibile da razionalizzare. Perché per Coppola il cinema (dalla trilogia de Il Padrino ad Apocalypse Now, passando per Un sogno lungo un giorno, Rusty il selvaggio, Dracula…) è innanzitutto un atto di fede, lo stesso che richiede allo spettatore. E a fronte di una messinscena che lambisce il kitsch, abbacinante, plastica, artificiosa, Megalopolis è prima di tutto un disperato, sfrontato, coraggioso film-testamento. Non perché sia l’ultimo (o almeno, ce lo auguriamo…) né perché voglia essere in qualche modo un lascito, un’eredità. Sembra piuttosto un sogno, una visione, di quelle che scorrono nella mente ripensando a un’intera vita, impossibile per Coppola da slegare dal suo stesso cinema, o dalla storia del cinema (ci vorrebbe un approfondimento a parte solo per elencare citazioni e rimandi, dal più evidente a Metropolis di Fritz Lang, alle sorelle Wachowski, da Powell e Pressburger a Orson Welles…).

Un flusso di coscienza per immagini che riprende temi e ossessioni del passato per proiettarli con ostinata fiducia verso un futuro che trova espressione proprio nella sequenza finale. Non ci stupiamo dunque di vedere in scena Talia Shire o Jason Schwartzman (madre e figlio, rispettivamente sorella e nipote del regista), o di leggere tra i titoli di coda il nome di Roman Coppola. Perché è ancora una volta una questione “di famiglia”, di genealogie e legami, che mescolano il privato al set. Una faccenda lunga quarant’anni, costata 120 milioni di dollari, di cui una parte ricavata dalla vendita dell’azienda vinicola della famiglia Coppola. E a cui la dedica alla scomparsa Eleanor, moglie di Francis morta ad aprile 2024, fa da corollario drammaticamente (e temporalmente) perfetto. La stessa Eleanor che ha documentato così lucidamente, in Viaggio all’inferno, quel cordone inseparabile, talvolta devastante, tra la vita e il cinema.