Christopher Nolan, genio e trascuratezza
La storia di un regista a suo agio con la magniloquenza e a disagio con l’intimità
di Marco Triolo
«In genere c’è una separazione naturale tra lo stile visivo e gli elementi narrativi [di un film]. Ma nel caso dei grandi, che si tratti di Stanley Kubrick, Terrence Malick o Hitchcock, [c’è] una relazione vitale tra le immagini e la storia che stanno raccontando». Christopher Nolan
Il cinema di Christopher Nolan è un cinema visivo, totalizzante. La parola ha sempre meno spazio, le immagini sempre più, a mano a mano che la sua filmografia procede. È un cinema d’impatto, enorme, che cerca sempre di mostrare cose che nella vita di tutti i giorni non vedremmo. Per questo, ultimamente, Nolan sta lavorando sempre di più con i grandi formati, il 70mm e l’IMAX: per lui tutto deve essere GIGANTESCO, le immagini ti devono immergere in un mondo alternativo, un 3D senza il 3D. In questo senso, Nolan e Tom Cruise sembrano pensarla in maniera molto simile: hanno la stessa idea di azione spettacolare, dove tutto deve essere “vero” il più possibile. L’uno si lancia di persona da una scogliera a bordo di una moto (pensate al fondo di quella scogliera popolato di cadaveri di motociclette immolate alla causa e ditemi che non vi fa venire in mente la distesa di cappelli di The Prestige), l’altro, se deve ricostruire un’esplosione nucleare, lo fa con degli esplosivi molto grossi, anziché con la CGI.
Visivamente parlando, il cinema di Christopher Nolan ha ben pochi paragoni oggi. Persino Tenet, che dal punto di vista della scrittura lascia molto a desiderare, diventa imperdibile in quanto oggetto cinematografico, perché mostra in maniera tangibile l’idea di “viaggio nel tempo”: Tenet è l’unico film in cui la gente letteralmente viaggia nel tempo, lo attraversa all’indietro muovendosi nello spazio. Chi altri ha mai avuto un’idea del genere, il fegato di metterla in scena e la possibilità di farlo con i fantastiliardi di paperdollari di zio Hollywood? È una domanda retorica, tranquilli.
Come è un po’ una provocazione retorica il fatto di aver dedicato questo nuovo episodio (inevitabilmente extralarge) di “Cane o mito?” a Christopher Nolan. «Se qualcuno ti chiamasse cane, io gli strapperei i polmoni», potremmo dire, citando il Joker di un Batman non suo. Questo è l’atteggiamento medio del fan di Nolan, portato a un tifo paragonabile a quello dedicato a Zack Snyder: Nolan è un genio assoluto, non lo puoi toccare, se lo critichi non capisci il cinema. Permetteteci di dissentire, tanto questo articolo andrà stampato per cui non dobbiamo preoccuparci di eventuali flame sui social. Tiè!
Comunque: provocazione, dicevamo. No, Christopher Nolan non è certo un cane. Eppure (lo avvertite anche voi il ditino del rompipalle che si alza?) ciò non significa che il suo cinema non abbia dei problemi, esplosi (pun intended) in maniera palese nel suo ultimo film, Oppenheimer, che incidentalmente è anche il film che gli frutterà una valanga di Oscar fuori tempo massimo. Si tratta principalmente di problemi di scrittura e progettazione del mondo dei suoi film, quello che ai fan del genere fantasy piace definire “world building”. Nella sua ossessiva ricerca della perfezione visiva, Nolan sta tralasciando sempre più il reparto narrativo delle sue opere. Come da citazione in apertura a questo pezzo, Nolan vorrebbe paragonarsi a Kubrick, Malick e Hitchcock, registi capaci di trasformare la forma in sostanza, di asciugare quasi del tutto dialoghi e costruzione dei personaggi per far parlare le immagini e far dire loro tutto il necessario. Il problema, purtroppo, è che Nolan non è Kubrick. Né Malick. Né Hitchcock. Ciò non significa che non sia un regista dotato, significa semplicemente che quel matrimonio di forma e sostanza non gli riesce al 100%.
Le sceneggiature di Nolan, ad esempio, sono popolate di “spiegoni”, le scene in cui un personaggio espone, in genere per mezzo di un lungo monologo, le regole del film. In Inception c’è addirittura un personaggio, Ariadne (Elliot Page), creato al solo scopo di fare domande per aiutare lo spettatore medio a capirci qualcosa della complessa tecnologia per navigare i sogni. Sia chiaro, gli spiegoni fanno parte della scrittura dei blockbuster fantastici americani da sempre, però è anche vero che inserirli nel tessuto di un film senza farli risaltare per quello che sono, dei manuali di istruzioni, è un’arte. In Matrix, tanto per fare un paragone con un film dalle premesse simili a Inception, il world building viene fatto a poco a poco, mescolando immagini e parole, e sono diversi i personaggi che si dividono il compito di istruirci su come funzioni il mondo ideato dalle Wachowski. Nolan, invece, tende a concentrare tutte le spiegazioni in blocchi pesanti di scrittura. È come se fosse impaziente e volesse sgombrare il campo per lasciar poi parlare l’azione. Da un lato è comprensibile, dall’altro però rende i suoi film sbilanciati e obbliga lo spettatore a superare lo scoglio di un primo atto logorroico per arrivare finalmente al succo.
C’è, poi, che Christopher Nolan è uno dei massimi esponenti del “Non rompere, è un film!”. Un mantra che il fan medio di Nolan non assocerebbe mai al suo regista preferito, elevandolo al contrario a simbolo di un cinema complesso e intellettuale, in cui ogni dettaglio è meticolosamente studiato, ogni ruota che compone la meravigliosa macchina dei suoi film perfettamente oliata. E invece è proprio così: i mondi di Nolan sono meticolosi e credibili solo fin dove a lui interessa, e poi non lo sono più. Va benissimo, si chiama sospensione dell’incredulità e la possiamo sempre sintetizzare con quello che Steven Spielberg diceva del finale de Lo squalo: non è credibile che Brody centri una bombola d’ossigeno con un arpione facendo saltare in aria il mostro. Ma se sono riuscito a convincervi che il mondo del film sia tutto sommato plausibile, vi fiderete di me e mi seguirete senza battere ciglio anche in questo salto logico finale. Il problema, nel caso di Nolan, è che lui ci tiene talmente tanto a dirci che, sì, ok, è un film di fantascienza, ma fantascienza REALISTICA, che quando quel salto logico arriva non siamo disposti a seguirlo. Succede spesso nella sua trilogia di Batman: Nolan si fa in quattro per farci credere in un tizio che se ne va in giro vestito da pipistrello in una metropoli immaginaria, a caccia di altri tizi truccati da clown (arrivando al punto di raccontarci come Batman abbia fabbricato la sua maschera comprando le orecchie in stock dalla Cina), e poi, quando le cose si fanno inevitabilmente implausibili, il regista getta la sospensione dell’incredulità dal finestrino al grido di “Non rompere, è un film!”. La parabola di Bruce Wayne, che ha le ginocchia distrutte da anni di lotta al crimine e torna in attività dieci minuti dopo grazie a delle protesi miracolose, è Nolan al 100%. Sta lì tutta la sua inguaribile trascuratezza mascherata da rompicapo.
L’altro grosso problema di Christopher Nolan sono le donne. I personaggi femminili nei suoi film sono poco più che tappezzeria. Prendiamo ancora una volta Inception, dove le uniche due donne – Ariadne e Mal (Marion Cotillard) – non sono dei veri e propri personaggi, quanto funzioni narrative: la prima, come detto, serve da catalizzatore di spiegoni, la seconda è un MacGuffin che fornisce la motivazione al protagonista Cobb (Leonardo DiCaprio). Anche in Oppenheimer sono due i personaggi femminili centrali, la moglie del protagonista, Kitty Oppenheimer (Emily Blunt), e la sua amante Jean Tatlock (Florence Pugh). Di nuovo, Nolan non si prende troppo la briga di approfondirle oltre la semplice nota di colore nella vita di Oppenheimer (Cillian Murphy), nonostante si tratti di persone realmente esistite. In Tenet, Kat (Elizabeth Debicki) è definita solo dal suo essere madre e, per una Murph Cooper (Jessica Chastain in Interstellar), c’è sempre una Rachel Dawes, risoluta assistente procuratore distrettuale in Batman Begins (dove ha il volto di Katie Holmes) ridotta a mera vittima sacrificale per scatenare la vendetta dell’eroe ne Il Cavaliere Oscuro (dove è invece interpretata da Maggie Gyllenhaal). Anche quando tenta di scrivere donne forti, Nolan fa sempre la figura dell’uomo che non sa scrivere le donne e pensa che basti dare loro uno o due tratti incisivi per renderle persone a tutto tondo.
Ma quello di Christopher Nolan resta un cinema prettamente maschile, e forse la ragione è molto semplice: Nolan avrebbe bisogno di uno sceneggiatore. Da quando ha smesso di collaborare con il fratello Jonathan e ha deciso di scriversi da solo i film, si è chiuso di fatto nella sua testa, tagliando fuori ogni possibilità di esplorazione e collaborazione fruttuosa che gli permetta di vedere il mondo attraverso gli occhi di qualcun altro e tamponare i suoi difetti. Al contrario, negli ultimi film i suoi difetti sono fioriti. Prendiamo nuovamente Oppenheimer: Roy Menarini, nella sua infinita saggezza, ha detto che pare un trailer di tre ore di un film da nove ore, e probabilmente da qui all’estinzione della specie umana nessuno darà una definizione più azzeccata non solo di Oppenheimer, ma del ritmo tipico dei film di Nolan, il modo in cui sembra concentrarsi in maniera ossessiva su determinati dettagli per poi glissare allegramente su altri che sembrerebbero altrettanto, se non più, importanti. In Oppenheimer, l’ambizione di Nolan è di unire il gigantesco e l’intimo, tanto che ha girato scene in interni con macchine da presa IMAX. Eppure, tanto è a suo agio con la magniloquenza quanto a disagio con l’intimità. I personaggi sono tutti macchiette: lo è persino il protagonista, con i suoi dilemmi morali che dovrebbero essere il cuore della parabola del film, esposti purtroppo in maniera didascalica e semplicistica. Nolan si accontenta di (o è costretto a?) condensare tutti i concetti importanti in scene chiave, e per il resto si scartavetra a rotta di collo attraverso decenni di storia e personaggi, con la stessa delicatezza di un cattivo da fumetto a bordo di una trivella gigante.
Non è un caso che una delle opere migliori dell’ultimo Nolan sia Dunkirk, un film in cui il regista ha modo di giocare con il tempo, la sua Vera Ossessione™, riuscendo allo stesso tempo a imbastire una storia in cui è l’azione a parlare, più che i dialoghi. Si parla molto poco in Dunkirk e, allo stesso tempo, essendo una storia ambientata nella seconda guerra mondiale, non c’è tanto bisogno di spiegoni per calare lo spettatore nella realtà del film.
A che conclusione vogliamo giungere dopo tutto questo sproloquio? Che Christopher Nolan dovrebbe lasciar perdere la fantascienza e tornare a una dimensione più raccolta? Che dovrebbe trovarsi uno sceneggiatore, o per lo meno dei collaboratori che lo aiutino a uscire dalla sua testa, per concentrarsi invece sul mettere in scena le cose più grosse e inaudite mai impresse su pellicola? Che sì, bravo Nolan e bravo anche amiocuggino, ma Stanley Kubrick sta da tutt’altra parte? Facciamo così: immaginate che il finale di questo articolo sia il finale di Inception, con la sua trottola che gira, gira e rigira… e tirate voi le vostre conclusioni.