Di burro d’arachidi e cioccolato

I am easy to find: Mike Mills e i The National

di Marika Zandanel

Era cinque anni fa, era al Milano Rocks e Matt Berninger posa il bicchiere ad un giro di piano sconosciuto. Aiuto, l’album nuovo. Light years era la traccia che ci stava consegnando in quel momento e che avrebbe anticipato l’album raffinato ed elegante che è I am easy to find.  Berninger canta il ritornello e il sound lo rincorre con quelle note inconfondibili, mima con le mani il movimento del pianista, picchiettando le dita in aria. Quel gesto ora mi pare profetico e quel solleticare l’aria, che Mike Mills fa fare a Joaquin Phoenix e nipotino in C’mon c’mon, restituisce un altro modo di far sentire la musica, di farla vedere con gli occhi, sancendo una collaborazione.  Il sodalizio fra il regista e i The National comincia proprio quando esce il cortometraggio omonimo dell’ultimo disco (ancora per poco!) della band. Mike Mills manda una mail, il gruppo risponde entusiasta e l’immagine inizia a farsi musica. Venticinque minuti, non un lungometraggio, né poi così corto, ma qualcosa che strizza l’occhio all’arte del videoclip (che il regista conosce bene). Per capirci: nel matrimonio fra musica e cinema non la colonna sonora, non il momento in cui si ascolta qualcuno che percorre la navata verso l’altare, ma il dopo, la festa, la festa per gli occhi quando tutti ballano canzoni diverse e la musica la si vede. In questo caso, noi vediamo/ascoltiamo Alicia Vikander che vive il tempo di una vita, un tempo condensato in cui sono le immagini a piegarsi al suono. Sotto, principalmente cinque canzoni della band americana che esistono prima di quelle immagini e che il regista deve incarnare in scene. Quite light è il big bang del video, la canzone con cui tutto ha inizio. La protagonista viene al mondo e inizia a scoprire la vita così come le si presenta e il sound del brano non è esattamente quello che conosciamo attraverso il disco. Sono solo degli accenni, sembrano prove di musica, un suono timido e prematuro che sta nascendo, come la Vikander di cui vediamo i primi piccoli movimenti, i primi pensieri.

In questa parte iniziale Mills imprime la sua poetica e la modella. Qui, più che mai, iniziamo a vedere qualcosa che fa parte della sua firma registica e che si ritroverà anche in C’mon C’mon, ovvero l’abilità di mettere in scena i pensieri dei personaggi in modo puro, così come sono. Quella che sembra un’operazione irrealistica e che il cinema spesso esplicita attraverso stacchi di montaggio particolari, cambio di colori, qui viene resa nel modo più realistico possibile: se la protagonista pensa o immagina qualcosa, questo pensiero viene mostrato così com’è, viene recitato da altri oppure accompagna semplicemente la voce baritonale di Berninger. Insomma, viene mosso senza alcuno stratagemma perché nella vita accade tutto compenetrandosi, soprattutto quando pensiamo e sogniamo. Rylan segna il momento in cui l’immagine in movimento raggiunge il suo apice, diventa davvero dinamica (si avvicina molto al videoclip di Hey Rosey, stesso album, stesso Mills che dirige il videoclip). Siamo nell’adolescenza, quando a muoversi è tutto e la protagonista coglie di questo passaggio il senso letterale. Qui, il cinema si fa musica attraverso il linguaggio del corpo di lei che vediamo ballare, correre, crescere anche se fisicamente Alicia Vikander non cambia mai. Tutti attorno a lei invecchiano, tutto cambia. Cambia anche lei, ma solo attraverso la recitazione, una recitazione notevole così come l’idea di Mike Mills che comprime in questa prova attoriale una verità indiscutibile: nel tempo di una vita si cambia, ma c’è quella costante che ci rende sempre uguali, riconoscibili.

I am easy to find, title track, si posiziona nel cuore del cortometraggio. È la maturità, è la vita adulta, è un sacco di cose che si succedono e che ci vengono descritte con delle didascalie. Sì, perché se deve essere cinema e musica, così sia. Non sentiamo nessuna parola, le parole vanno solo lette sullo schermo e quindi, anche loro, vengono viste. Poche volte qualcuno parla, ma è sempre accompagnato dai The National in sottofondo e se la protagonista apre bocca quando la musica si interrompe è solo per cantare a sua volta. Cosa canta? Naturalmente I am easy to find, sdraiata su un prato mentre si interroga sull’amore per il marito, sui cambiamenti del figlio, sulla perdita. Scene che si declinano su un brano che, per suono e testo, è la canzone dello smarrimento per eccellenza, il dubbio. La risposta è lì, easy to find, ma è difficile da trovare, è difficile essere grandi. Vecchiaia. Il cerchio si chiude ed è ring composition non solo perché è di nuovo la rappresentazione dei pensieri a fare da padrone, ma anche perché ritroviamo Oblivions, che qui è imperante e di cui possiamo distinguere qualche nota anche all’inizio. Il ricordo è la dimensione dei pensieri, della donna che rivede nelle sue memorie pezzi di vita e persone, come il ricordo di sua madre che le racconta una storia. È qui che il regista inserisce ancora di più se stesso e l’importanza che per lui ha la figura materna attraverso la ri-presentazione di scene che funzionano come cartoline parlanti (C’mon C’mon e 20th Century Women sono altri esempi di questa attitudine). La Vikander, stesa sul pavimento, pensa. A sudden new feeling about music dice la didascalia e la vediamo mentre solletica l’aria, Mike Mills ha compiuto l’incantesimo. Tutto finisce come era cominciato per me nel 2018, con Light years che chiude il cortometraggio (e anche l’album) mentre ci viene mostrato quello che mai si può vedere, la vita che se ne va. In una lunga intervista condotta dal critico David Ehrlich, il regista sostiene che musica e cinema siano come il burro d’arachidi e il cioccolato: they’re really happy together, but it’s more than that. Guardando I am easy to find non possiamo che essere d’accordo. Gourmet.