Chi ha paura di Paul Verhoeven?

Mezzo secolo di stolidi successi e sublimi fallimenti

di Luca Mantovani

Chi ha paura di Paul Verhoeven? Per togliere qualsiasi pretesa di obiettività a quanto seguirà, vale chiarire da subito che, chi scrive, si dichiara da sempre fan entusiasta e acritico del regista olandese e della sua opera.

Nell’arco di una carriera che ha ormai superato il mezzo secolo (l’esordio, nel 1971, con Gli strani amori di quelle signore), Verhoeven ha firmato come regista 17 film e altrettanti capolavori, alcuni conclamati al punto di guadagnare lo status di cult e arrivare a ridefinire i canoni del genere di appartenenza – pensiamo in particolare alla tripletta RoboCop (1987), Atto di forza (1990) e Basic Instinct (1992), all’influenza che ancora esercitano sul cinema action, fantascientifico, thriller ed erotico.

Rastrellando sin da subito continui (o quasi) trionfi al botteghino, l’autorialità di Verhoeven si è per contro ritrovata spesso al centro di ferocissimi attacchi critici e militanti: si va dalle più miopi accuse di rozzezza e volgarità, alle più problematiche bolle per misoginia, omofobia, machismo. Tutte accuse, va detto, che non solo sembrano scivolare addosso all’interessato, ma che l’opera stessa di Verhoeven dribbla con scanzonato compiacimento, quando osservata con più freddo sguardo retrospettivo.

Non è certo un caso che, al netto dei milioni incassati e degli inviti a festival prestigiosi, Verhoeven resti un autore poco o nulla premiato, consolato giusto da qualche sparuto Oscar tecnico e da un timido Pardo alla carriera, consegnatogli dal Festival elvetico nel 2000.

La domanda con cui si apre questo pezzo non è allora pretestuosa: chi ha paura di Paul Verhoeven e, soprattutto, perché? Quesiti che mi turbano con tanta più urgenza proprio in questi giorni, in cui il coraggioso distributore Movies Inspired porta finalmente nelle nostre sale l’ultima fatica del regista, andando incontro a un certo destino di magrissimi incassi. Benedetta (2021), infatti, raggiunge i cinema italiani a quasi due anni dalla presentazione in concorso al Festival di Cannes. Per capirne le ragioni più superficiali, basta scorrere la trama del film, che ripercorre le vicende reali di Benedetta Carlini, monaca, mistica e veggente, lesbica conclamata, che passò senza soluzione di continuità dal ruolo di badessa del Convento di Pescia, in Toscana, a sorvegliata speciale dei tribunali pontifici, nell’Italia della Controriforma.

Insomma, già così ce n’è di che far disperare i già disperati esercenti italiani e turbare gli umori di un pubblico baciapile, che ha da poco decretato l’insuccesso anche di una pellicola innocua come la Chiara (2022) di Susanna Nicchiarelli (anche qui, guarda caso, una religiosa e mistica italiana donna). Se ci si sofferma, poi, a ragionare sul fatto che i monosala dove ragionevolmente il “film d’essai” di Verhoeven avrebbe potuto circuitare, per la più parte pagano i loro affitti alle parrocchie che ne posseggono i muri, beh, verrebbe voglia di alzare il telefono per sentire se in casa Movies Inspired non abbiano per caso terminato la Tilia tomentosa.

Chi non ha bisogno di ricorrere a integratori naturali o benzodiazepine, è di certo solo il buon vecchio Paul che, più che sugli ostacoli incontrati nel corso di una lunga carriera, siamo sicuri trascorra i suoi pomeriggi interrogandosi su come sia potuta andargli tanto liscia nel 2016, quando lo strepitoso Elle riuscì nell’impresa per lui unica di unire consacrazione critica, premi internazionali e botteghino.

Dopotutto, se sei nato allo scoppio del secondo conflitto mondiale e hai passato l’infanzia all’Aja, accanto a una base di lancio delle Vergeltungswaffen naziste, cosa può più turbarti? Nemmeno un fallimento colossale, leggendario addirittura, in agguato all’apice della tua carriera. Che è quanto accade, ça va sans dire, a Verhoeven nel 1995.

Reduci dal trionfo di Basic Instinct, che arriva a incassare oltre 350 milioni di dollari, Verhoeven e lo sceneggiatore Joe Eszterhas devono essersi sentiti degli intoccabili Re Mida di Hollywood: ancora inebriati e sostenuti dalla Carolco Pictures che dà loro carta bianca, i due partoriscono un progetto oltremodo ambizioso, un ritratto caustico ma pericolosamente ambiguo del mercato multi-milionario che a Las Vegas gira intorno all’intrattenimento erotico e al sesso. Showgirls arriva a costare la ragguardevole, per allora, cifra di 45 milioni di dollari, ma ne incassa globalmente appena 37. È un flop mondiale, un disastro di proporzioni bibliche, un mito trascritto a lettere di fuoco nel grande libro nero di Hollywood, la cui narrazione si perpetua a quasi trent’anni di distanza.

Macellato dalla critica, mai più così unanime nella stroncatura inappellabile, il film viene all’uscita snobbato anche dal pubblico: la sceneggiatura tronfia che aggiorna agli anni 90 le dinamiche di Eva contro Eva, i dialoghi impossibili, la recitazione anfetaminica di tutto il cast (a cominciare dalla protagonista Elizabeth Berkley, che con questo film contava di svestire – letteralmente – i panni logori di Jessie Spano, la liceale secchiona della sitcom Bayside School), le iper-grafiche scene di nudo e violenza, il barocchismo esasperato della messinscena, vengono accolti con disagio o aperti sberleffi, tanto che gli unici trionfi che Showgirls conoscerà, saranno quelli ai Razzie Awards (ben sette).

Eppure, è proprio qui che la leggenda nasce – o meglio, rinasce sotto segno positivo. Serafico e persino divertito, Verhoeven è il primo regista in assoluto che si presenta di persona a ritirare i premi per il peggior film e il peggior regista. La storia di come, da qui, il film risorga prima come midnight movie, divenendo poi uno dei più grandi successi home-video della MGM, per instradarsi infine in una lenta ma costante opera di rivalutazione da parte della critica, meriterebbe lo spazio di un articolo a parte. Spazio che non esiteremo a rivendicare su queste pagine, in occasione del trentennale – o prima.