ABBECINECEDARIO: M come Museo

M come Museo

di Alessandro Faccioli

Quando in un film di finzione vengono mostrati dipinti e sculture in uno spazio museale e l’azione tende a rarefarsi perché il racconto cede il passo alla descrizione e a un ritmo più meditativo, gli spettatori sono sollecitati a raddoppiare l’attenzione. Non si tratta quasi mai di una scelta casuale, di un semplice diversivo visivo. E se lo è, peggio per gli autori, subito invischiati nella precarietà di una mossa narrativa puramente esornativa che può rivelarsi controproducente.

Sono così tanti i film celebri segnati da un incontro con il museo. L’arte si riflette allora nell’arte, uscendone rinvigorita grazie alla potenza estetica di un patrimonio evocato quasi sempre nel suo complesso, più che nelle singole emergenze artistiche. Anche le rovine – che del bello organizzato sono il contraltare caotico – hanno la forza magnetica di attirare su di sé l’attenzione dello spettatore, regalandogli un equivoco piacere estatico. E quando museo e rovine si combinano, la vertigine è assoluta. Rovine fisiche, come quelle che contornano la Galleria degli Uffizi attraversata di corsa dai protagonisti dell’episodio fiorentino di Paisà, in cui le poche opere non evacuate sono protette da strutture di legno. Rovine esistenziali, come le collezioni accatastate nella reggia-museo di Charles Forster Kane, destinate alla dispersione nel finale di Quarto potere. Rovine psichiche, puntellate da soggettive necrofile, come nelle tre celebri sequenze di Vertigo di Hitchcock in cui James Stewart/Scottie osserva Kim Novak/Madeleine seduta in una sala del California Palace of the Legion of Honor (forse l’unico museo al mondo in cui il guardiano di sala ti regala il catalogo delle opere esposte), mentre contempla l’inquietante ritratto di Carlotta Valdes.

Non è dunque un caso se alcuni tra i film più noti ospitano straordinarie sequenze ambientate in spazi museali. Ciò che nelle pinacoteche viene osservato da personaggi più o meno interessati, può connotare all’istante un’intera opera. L’ha capito bene Paolo Sorrentino, squisito manierista a volte un po’ stucchevole, che fa attraversare al suo Young Pope l’ideale museo dei musei, florilegio di capolavori che sovrastano i titoli di testa. Jude Law, papa superstar, si gira verso lo spettatore e gli strizza l’occhio, prima che un meteorite colpisca Giovanni Paolo II, subito trasformato in un’installazione di Cattelan.

A torto, tutto sembra diventare facile quando il museo entra nel cinema, in un’epoca come la nostra in cui il cinema stesso è musealizzato (e quindi devitalizzato). A portata di mano può esserci il gioco delle citazioni e delle allusioni (Tutti i Vermeer a New York di Jost) o il calcolo geometrico dello sguardo di un personaggio davanti a un ritratto e a una statua, così come dello sguardo rivolto da un ritratto al personaggio. Dall’epoca del muto a oggi, quest’ultimo tòpos attiva ambigui cortocircuiti di senso che transitano vitali dalla letteratura di genere al cinema e alle arti visive, lambendo miti classici come quelli di Orfeo e Pigmalione e, più in generale, le allucinazioni delle metamorfosi ovidiane.

In gioco non c’è quasi mai il contenuto artistico in sé ma una riflessione sulla morte e sul tempo (si pensi a L’arca russa di Sokurov e alle diverse epoche raccontate in apparente continuità spazio-temporale attraverso le sale dell’Ermitage di San Pietroburgo): il tempo della storia e il tempo del racconto (che non sono la stessa cosa), che reagiscono a contatto con dei personaggi calati a loro volta in una vertigine temporale di cui si possono anche rendere conto, come nel Museo di Storia naturale presso il magnifico Jardin des Plantes di Parigi, in La Jetée di Chris Marker.

Se invece Kubrick vuole rappresentare una collezione d’arte, che del museo è la premessa, la sfiora appena, senza cacciarsi nel didascalismo con il quale molti suoi colleghi lasciano appassire i propri personaggi. Barry Lyndon vuole costruire una gloriosa quadreria con i soldi della moglie e del lord defunto che ha soppiantato? Sperpera un patrimonio, perché ha capito che nell’alta società inglese del diciottesimo secolo le opere d’arte sono biglietti da visita, status symbol che aprono nuove porte, e non solo una galleria in cui la sfilza inquietante degli antenati è passata in rassegna, tra nature morte e soggetti mitologici allusivamente erotici. Barry sceglie con leggerezza il quadro di un allievo di Alessandro Allori perché di esso gli piace l’utilizzo del colore azzurro. Tanto sul prezzo due gentlemen riusciranno sempre ad accordarsi.

Non ci sono però solo le opere d’arte o gli animali impagliati. Ci sono anche i fossili e al Museo di Scienze Naturali di Verona, alla fine del 1961, Antonioni ha girato per L’eclisse una sequenza in cui Monica Vitti/Vittoria parla con un uomo – presumibilmente il direttore, interpretato da un giovane avvocato scaligero, Vasco Consoli, attore non professionista e amico del regista – delle pietre di Bolca e delle palme, dei pesci, delle alghe intrappolate per sempre nelle lastre. Peccato che queste inquadrature siano state tagliate e non compaiano nel montaggio definitivo. I dialoghi conservati nella sceneggiatura edita ci danno modo di constatare come una volta di più, quando il cinema entra nelle sale di un museo, siano in questione la vertigine del tempo e il senso di finitudine delle cose. Vittoria: – «Quanti anni fa, dieci, ventimila?» Uomo: – «Lei ha voglia di scherzare. Si calcola dai cinquanta agli ottanta milioni di anni fa». Vittoria esterrefatta ripete meccanicamente: – «Ottanta milioni di anni fa!» […] Uomo: – «Questa è un’alga», indicando un fossile dal disegno elegante. Vittoria: – «Sembra un quadro astratto. Un mondo astratto, senza sentimenti». Uomo: – «Chi lo sa. Forse fra cinquanta milioni di anni sapremo… sapranno come era una volta».