
Il Candore della Donna Incubo
Il ritorno in sala di Audition
di Michele Bellantuono
«Un giorno, un uomo perbene e ordinario, incontra una donna demoniaca»: possiamo racchiudere la trama di Audition in questa descrizione essenziale di Ryu Murakami, autore del romanzo da cui è tratto il film omonimo di Takashi Miike, uno dei registi giapponesi contemporanei più prolifici, con una media di carriera che supera il paio di film realizzati all’anno.
Una vastissima filmografia in cui un certo senso del grottesco e dell’orrore, assieme a un gusto tarantiniano per la violenza e l’eccesso, hanno posto le basi di uno “stile Miike”. Inquadrato nella carriera del regista, o se anche solo confrontato con produzioni coeve, Audition sembra comunque un’opera isolata, o un incubo a ciel sereno. Il film, con i suoi 115 minuti di durata, costituisce un interessante caso studio per gli amanti del cinema di genere, specialmente in virtù della sua struttura e dell’equilibrio dei ritmi interni, inusuali per un horror (e l’etichetta è in effetti discutibile). Della prima, lunga parte del film si è persino arrivati a dire che, da un punto di vista fotografico e narrativo, ricorda quasi un quadro familiare alla Ozu: il ritratto di un buon padre di famiglia, un vedovo che su stimolo del figlio adolescente decide di cercare una nuova fidanzata.
Il nostro protagonista chiede consiglio a un amico produttore, che gli propone di organizzare un finto provino per giovani attrici. Aoyama inizialmente non è convinto dell’idea e il film inizia ad accumulare una certa tensione su questa indecisione: è una scelta giusta? Aoyama è davvero un uomo buono o è solo l’ennesimo esemplare di maschio tossico in cerca di un catalogo di donne disposte come oggetti? Lo spettatore tenderebbe a stare dalla sua parte, ma la scelta di sfruttare il trucco del provino, che di fatto gli permette di incontrare giovani donne, pare alimentare un crudele demone del contrappasso, un carnefice in bianche vesti pudiche e capelli corvini, col volto delicato come un angelo e l’espressione ferma, che sembra appartenere alla statua di una dea proibita: Aoyama sceglie lei, Asami.
Questo personaggio è un essere di pura ambiguità, teso tra il bestiale e il serafico: sembra logico studiarne la natura, più che le intenzioni o la personalità, proprio come si farebbe per un essere disumano. Analizzando il personaggio da un punto di vista psichico (diciamo pure psichiatrico), entriamo probabilmente nell’ampia sfera dei disturbi di personalità. Eppure, Asami rappresenta un livello di crudeltà che forse supera anche quel confine patologico, in cui comunque troviamo un conforto diagnostico, che spiega il male con la disfunzione.
Aoyama e Asami iniziano dunque a uscire assieme, in quello che sembra inizialmente un rapporto sano ed equilibrato; Aoyama è un uomo delicato e gentile, guarda l’universo femminile come il membro medio di una società fortemente patriarcale. Asami è una ragazza graziosa, timida, eterea. La sua presentazione al provino colpisce Aoyama in modo particolare, perché rivela una natura delicata, ma anche una certa profondità d’animo, una cicatrice che fa emanare dalla sua persona un senso di malinconia e di occultata sofferenza, che attrae immediatamente il protagonista. Il quadro che traccia Miike è quello dell’evoluzione di un autentico rapporto romantico, che ha il suo culmine nella sequenza del pernottamento in hotel, in cui Aoyama ha intenzione di chiedere la mano di Asami. Dopo aver passato la notte con lei, al risveglio si ritrova solo nel letto: Asami è sparita.
Fino a questo punto la fotografia del film, curata da Hideo Yamamoto, è sobria, bilanciata, caratterizzata da una saturazione neutrale e una luce naturale, da prodotto televisivo (ricorda lo stile di Hana-bi di Kitano, fotografato dallo stesso Yamamoto). C’è però una nota stonata, un accenno di macabro che rimane sospeso nella narrazione: ci viene brevemente mostrata la stanza di Asami, in cui la ragazza rimane in ginocchio attendendo la chiamata di Aoyama. Dietro il telefono, unico oggetto in scena, è inquadrato un sacco, che contiene qualcosa… di vivo.

Audition diventa a questo punto un prezioso esercizio di costruzione della suspence, in cui l’immersione in un’atmosfera quotidiana e sognante, in cui dominano le logiche dell’affetto e della scoperta reciproca di due individui soli, anticipa l’ingresso in una realtà alternativa, che assume i tratti dell’incubo. La fotografia di Yamamoto si fa acida, una luce calda e malsana avvolge Aoyama mentre lui cerca di risalire ai contatti di lei per chiarire alcune ombre. L’immagine si fa espressionista, la linea dell’orizzonte è inclinata, la macchina da presa perde il suo asse e il film sembra ora quasi chimicamente alterato, perde ogni naturalità cromatica in sequenze oniriche che proiettano il crescente timore di Aoyama in vivide allucinazioni.

Audition si rivela essere un film sul dubbio e sull’orrore dell’ignoto, su un incontro tra generi che si attua su un terreno impari, in cui la violenza è una risposta schizofrenica e incomprensibile. Anche il sessismo è un tema, ma è davvero anche un movente? Asami non sembra incarnare un potere femminista, contrapposto al patriarcale; rappresenta forse la proiezione di un senso di colpa di Aoyama, punito per avere scelto di prendere una seconda moglie? Ricordiamo che la sua scelta è inizialmente stimolata dallo stesso figlio. Il film, infine, non si chiude con la catartica risoluzione di una vendetta da parte di una donna-oggetto, quanto con un’immagine che racchiude solo dolore e solitudine, in cui la donna-incubo e il partner maschio condividono finalmente uno sguardo, mostrando in quel rapido frangente quella che sembra un’autentica, fatale connessione.