Esplorazioni d’atavica insonnia

Alexis’s demons: il cinema di Alexis Langlois

di Riccardo Chiaramondia

Una delle maggiori difficoltà tanto per chi fa arte, quanto per chi come me prova a scriverne e analizzarla, è il riuscire a essere leggeri, non solo nell’esposizione, ma anche mentalmente, parlando e provando ad analizzare cose serie. Affrontare l’impegno sociale di Anhell69, la disperata rappresentazione della sessualità giovanile di Gushing Prayer di Masao Adachi o la depressione che permea ogni fotogramma di An Elephant Sitting Still di Hu Bo, esempi citati per il mio enorme apprezzamento nei loro confronti, lo trovo necessario, in alcuni momenti urgente, ma limitarsi solamente a queste visioni a volte può far perdere la gioia dell’arte, potrebbe anche indurre ad assumere uno sguardo indagatore che mette l’analisi sopra al piacere e creare una sofferenza unicamente distruttiva e non propositiva. Opere come quelle citate sono indubbiamente sincere e figlie di un’incontenibile istinto di raccontare, ma in alcuni casi, su questo tornerò dopo, la drammaticità viene utilizzata non come la conseguenza delle sensazioni provate, ma come l’unico mezzo possibile e imposto per raccontare un tema caro, perdendo così di autenticità e rischiando di non far passare il messaggio alla base. Per questo motivo alcune settimane fa perso nella mia atavica insonnia e nella totale abnegazione con cui nell’ultimo periodo ho dedicato giorno e notte alla stesura della tesi ho sentito la necessità di dedicarmi ad alcune visioni che mi portassero in una comfort zone dove è pur presente della riflessione, anche molto sentita, ma in cui il divertimento prende il sopravvento. Avevo bisogno di quel cinema queer drammaticamente giocoso, pieno di colori forti, di esagerazioni e nei cui volti riesco a sentirmi accolto: così mi sono imbattuto in due visioni folgoranti come Terror, Sisters! e The Demons of Dorothy di Alexis Langlois.

Entrambe le opere, seppure con un accezione differente, ruotano attorno al problema dell’accettazione: nel primo caso il problema è la transfobia subita dalle protagoniste, a loro agio nei propri corpi, ma non in una società che le tratta con odio o con una curiosità non dissimile a quella degli zoo umani dell’epoca coloniale, nel secondo, invece, a essere preso in considerazione è il modo in cui le produzioni cinematografiche, per motivi puramente economici, escludono aprioristicamente determinati film. In Terror, Sisters! quattro amiche sedute attorno a un tavolo discutono della discriminazione che subiscono quotidianamente e immaginando situazioni loro ostili fantasticano su possibili vendette. Alla base di quest’opera è possibile cogliere l’influenza di John Waters, in particolare la conversazione delle protagoniste che per le fantasie vendicative e per la distribuzione di corpi e colori nella scena richiama lo sfogo del gruppo di Divine presente all’inizio di Female Trouble, dell’onirismo allucinato di Gregg Araki e del gusto per l’esagerazione di Russ Meyer a cui l’affermazione «libererei tutte le trans del mondo con le mie tette» fatta da una delle amiche al centro del film non può che rimandare. I tre registi appena citati rappresentano diverse generazioni di un cinema che attraverso il ricorso al trash e alla farsa è stato in grado di affrontare tematiche complesse come l’emancipazione sessuale femminile, l’omofobia, la transfobia e la sessualità adolescenziale contribuendo, in maniera più o meno consapevole, ai processi, purtroppo ancora lontani dall’essere compiuti, di accettazione e normalizzazione senza mai rinunciare a un sorriso. Alexis Langlois si pone in continuità con questa tradizione e racconta con gioia l’essere altro rispetto a una supposta normalità e cerca di scardinare le difficoltà attraverso la leggerezza. Il suo cinema visivamente estremo e apparentemente sconclusionato, però, come quello di Meyer, Waters e Araki, rimane fuori dal mercato e ha difficoltà a essere prodotto: restare vivi in questo contesto è difficile e su questo si interroga in maniera esplicita The Demons of Dorothy. Langlois in questo corto accentua le tendenze del suo cinema e, attraverso un esplosione di trucco prostetico e citazioni pop, critica ferocemente il sistema in cui i produttori «finanziano i ricchi», in questo caso Xena Lodan, enfant prodige celebrata da tutti, ma ritenuta una modaiola senza reale sostanza dalla protagonista a cui, invece, vengono negati i finanziamenti per un film «con delle lesbiche, terroriste e rivoluzionarie».

Il film che Dorothy vorrebbe realizzare, così come quello di Langlois, è esplicitamente finto e (auto)parodico nella narrazione e nella caratterizzazione dei protagonisti, ma al suo interno è presente un’urgenza di raccontare e raccontarsi nel maniera più spontanea possibile. Xena Lodan, come appare chiaro dal nome e dalla descrizione che ne viene fatta, è l’alter ego femminile di Xavier Dolan, autore con idee di cinema antitetiche a quelle di Langlois: il suo esordio con J’ai tué ma mère, realizzato a vent’anni, ha rivelato al mondo un talento cristallino e, grazie anche al suo essere convenzionalmente non convenzionale, ha ottenuto finanziamenti sempre maggiori per realizzare le sue opere. Oltre alla riflessione sulle vicende produttive e alla presenza spesso taciuta di un padre influente come Manuel Tadros, in The Demons of Dorothy egli è criticato per l’essersi inserito sempre nelle tendenze del momento rinunciando alla spontaneità e assumendo, come detto in apertura, l’eccesso di drammaticità come unico mezzo possibile per raccontare tematiche complesse anche laddove non fosse necessario, perdendo così la sincerità dell’operazione. Il modo di raccontare di Langlois non è intrinsecamente migliore di quello di Dolan e i due approcci possono e devono convivere, ciò che è importante è riscoprire sia in ambito produttivo, sia come fruitori la leggerezza e la giocosità che anche queste opere meritano. In fondo, quando soffriamo sappiamo anche a sorridere.