Pensavo fosse un comico… invece era Troisi

I settant’anni dell’umorista dei sentimenti

di Luca Romeo

Massimo Troisi, intellettuale italiano degli anni Ottanta. Ai più, questo incipit potrebbe suonare quantomeno audace: siamo tutti portati a pensare l’attore napoletano come a un comico, una marionetta vivente che mette sul palcoscenico e sullo schermo vizi e virtù della sua città e del suo tempo. Ma fermarci a guardare Troisi con questi occhi sarebbe riduttivo. L’artista di San Giorgio a Cremano non era un clown acchiappa-risate, nei suoi film si ride (tantissimo), ma spesso si piange (magari più di nascosto). E soprattutto, tra una risata e un groppo in gola, nei film di Troisi si riflette. Dopo gli anni di piombo iper-politicizzati, gli anni Ottanta italiani si sono ritrovati iper-svuotati. In un contesto del genere, l’artista partenopeo ci parla di femminismo, di tradimenti, mette in discussione l’istituzione del matrimonio, sfiora il delicato tema del riconoscimento di un figlio non legittimo. E che cos’è un intellettuale? Pasolini – l’intellettuale italiano per antonomasia – nella celebre Io so si definiva tale in quanto «cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immagine tutto ciò che non si sa o che si tace».

Lo spunto per guardare Troisi come un epigono di Pasolini è dato da Mario Martone. Per ricordare Troisi a 70 anni dalla sua nascita, infatti, il regista concittadino del Nostro ha da poco realizzato il documentario Laggiù qualcuno mi ama. Martone comincia il suo film paragonando Troisi ad Antoine Doinel, celeberrimo personaggio e alter ego di Truffaut e simbolo della Nouvelle Vague francese. Come l’autore parigino ci mostra un ragazzino e la sua crescita in una società in rapido mutamento, allo stesso modo Gaetano, Vincenzo e le altre “maschere” indossate da Troisi potrebbero essere riconducibili a un unico personaggio, un giovane impacciato che si muove con finto machismo in un mondo di adulti che non sa emulare, un Doinel con tic simili, una profonda insicurezza e un uguale rapporto di subalternità con il genere femminile. È che Truffaut era un intellettuale consapevole del suo ruolo, pertanto nella sua arte comunicava con un codice elegante e più serioso, mentre Troisi rimarrà sempre legato alla tradizione popolare, al teatro napoletano, alle sue radici culturali che perfettamente si attagliavano con i compagni di palco de La Smorfia.

Sottolineiamolo pure: c’è intellettuale e intellettuale. Non possiamo paragonare Dante con Pasolini, né Ungaretti con Aristotele. Già, perché un intellettuale va preso nel suo contesto. E, dunque, Troisi arriva in televisione e al cinema tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80. La critica lo considera uno dei cosiddetti “nuovi comici” del cinema italiano, registi che cercano di realizzare film diversi dai maestri ammirati in precedenza (proprio come Truffaut e Godard avevano fatto due decenni prima Oltralpe) e tra i quali i più famosi sono Nanni Moretti e Carlo Verdone. Con il primo che cerca la riflessione più politico-sociale e il secondo che nel suo dolceamaro panico sembra più propenso a strappare risate. E Troisi dove lo collochiamo? A metà tra i due: non forza la mano politica come Nanni né si fa marionetta proteiforme alla pari di Carlo. Massimo è Massimo, qualcosa che non è mai esistito e mai potrà esistere in futuro.

Il lavoro di Martone, mentre sono passati ventinove anni dalla scomparsa di Troisi, si fa estremamente prezioso quando sul grande schermo appare Anna Pavignano. Il verbo apparire, quasi mistico, non è casuale in questo caso: Anna Pavignano è la figura fondamentale che dialoga con il regista nei suoi primi film, è la sceneggiatrice che riesce a restituire umanità alle gag del “comico dei sentimenti”. Il femminismo che traspare soprattutto in Ricomincio da tre (1981) e Scusate il ritardo (1983) è frutto di una collaborazione strettissima tra i due, come spiega Pavignano nel documentario. Troisi era l’intellettuale capace di compiere un passo indietro quando necessario, capace di farsi affiancare da chi le rivendicazioni femministe le aveva messe in pratica in prima persona. Ascoltare la sceneggiatrice quarant’anni dopo quei film vuol dire donar loro una seconda giovinezza e smettere di pensarli come capolavori della comicità, bensì come opere a tutto tondo sulla società italiana. Opere in cui si ride, si piange e si riflette. Cosa che solo un “comico dei sentimenti”, se ha senso utilizzare questo epiteto che è quasi un ossimoro, sa, può e deve fare.

Pino Daniele, Benigni, Ettore Scola e poi la lotta di classe, la lotta allo stereotipo del napoletano medio e Diego Armando Maradona. O, ancora, Lello Arena, Il postino e quella citazione di De André che Troisi, già malato di cuore, aveva appuntato sul suo diario: «Eppure un sorriso io l’ho regalato». Sarebbero tanti gli spunti di riflessione che nascono dall’arte del nostro intellettuale e recuperati dalla cinepresa di Martone, troppi per un attore che qualcuno definirebbe solo un comico.

Ma è un altro dei soprannomi di Troisi a prendersi le ultime righe di questo articolo: “Pulcinella senza maschera”. Un altro paradosso, un altra non-definizione, che tende all’ossimoro e vuol dire tutto e niente. Ma che riesce a farci capire la grandezza di Troisi. Come spiegava Pirandello, la comicità è cosa diversa dall’umorismo: la prima richiama la risata “di pancia”, la seconda una risata più amara a cui segue una riflessione. Ecco chi era Troisi e cosa è stato per il nostro cinema: un intellettuale, certo, ma soprattutto un umorista dei sentimenti.