Cinema ’68

Costruirsi un immaginario

di Riccardo Chiaramondia

Uno dei miei miti (pre)adolescenziali è stato il Sessantotto, un momento di fervore culturale e di colori forti che nella nebbia lombarda della mia provincialissima città erano impossibili da vedere. Questo amore mi ha accompagnato ciecamente fino ai diciassette anni quando, contraddicendo Rimbaud, l’altro invaghimento di quel momento, che sosteneva l’impossibilità di essere seri a quell’età, è di colpo apparsa la disillusione: iniziare a cogliere le contraddizioni e le ipocrisie è stato un duro colpo per il mio giovane idealismo.

Negli anni il tradimento di quella prima cotta è stato rielaborato, contestualizzato e crescendo ho capito come mettere in prospettiva quel periodo storico e l’amore è rinato. Un grande dispiacere è sempre stato quello di non conoscere nessuno che avesse vissuto in pieno quegli anni, troppo piccoli allora i miei genitori, troppo impegnata a tenere in piedi la famiglia mia nonna e così non ho mai potuto accedere al grande cassetto delle testimonianze fino a qualche mese fa, quando, inaspettatamente, ho dovuto intervistare un uomo che nel 1969 a Torino fece le barricate e che quei momenti li ricordava bene. Vedere nei suoi occhi ormai settantacinquenni l’emozione e la voglia di continuare a lottare mi ha dato speranza.

Ho rispolverato allora l’idea di questo pezzo dove riflettere su quegli anni attraverso tre film realizzati in diversi periodi e che nel tempo hanno creato il mio immaginario sessantottino. Sarà un racconto filtrato dai miei occhi che quegli anni non li hanno visti e quindi verosimilmente fallace, ma la potenza del cinema è proprio questa: permettere attraverso l’illusione di abitare infinte possibilità di mondi e di imparare da esse. A cinquantacinque anni di distanza ne abbiamo ancora bisogno.

Easy Rider: la sbornia
Beviamo un bicchiere, forse due, meglio tre. Il liquido è forte, troppo, eppure lo mandiamo giù. Il mondo attorno ci spaventa, non ci appartiene, viviamo con la paura; fino ad oggi siamo stati fortunati ma domani potrebbe toccare a noi, da un momento all’altro potrebbe essere il nostro turno. Almeno soffrissimo d’asma, il fantasma della leva non veglierebbe su di noi. E mentre la nostra generazione muore inutilmente in Vietnam affoghiamo in un bicchiere le nostre paure. Ebbri inizia a prendere forma davanti a noi un sogno…
In Easy Rider a essere sognata è la libertà, ottenibile soltanto attraverso un ribaltamento parodico dell’American Dream, la bugia storica secondo cui il duro lavoro avrebbe portato negli Stati Uniti un diffuso stato di benessere. L’immagine propagandata dei sobborghi felici in cui risiedevano famiglie nucleari, che secondo Parsons rappresentavano la miglior forma possibile di aggregazione domestica, sembrava essere la perfetta dimostrazione del funzionamento del sogno americano, ma sotto si nascondeva una società profondamente iniqua con differenze sociali, razziali e di genere ben lontane dall’essere risolte. Hopper nel 1969 decise di portare un attacco a quell’ideologia attraverso la rappresentazione della sua nemesi: la cultura hippy.

Il film inizia con due esclusi dall’American Dream, persone che per motivazioni ideologiche o per estrazione sociale non sono riusciti a infilarsi in quel sistema malato e fallimentare, eppure in qualche modo ne ripropongono lo schema: lavorare come unica via per ottenere piacere e benessere. In questo caso, però, a portare soldi non è un lavoro ritenuto rispettabile, bensì il narcotraffico, e ciò che si vuole ottenere in cambio non è la stabilità, ma la possibilità di raggiungere in moto il carnevale di New Orleans. Hopper in pochi minuti di pellicola riesce a mostrare l’altro lato dell’American Dream, quello che esclude invece di includere e che essendo intrinsecamente fallace è condannato a creare con le sue iniquità i propri nemici: non è un caso che uno dei due protagonisti sia ironicamente soprannominato Captain America.

Easy Rider, però, non è solo la distruzione di un sistema, ma anche la costruzione di un immaginario alternativo. I due protagonisti inizialmente sono una forma ibrida, essi, infatti, sono esclusi dall’American Dream e presentano caratteristiche rimandanti alla cultura hippy, ma non hanno una vera consapevolezza di cosa essa sia. Il viaggio ha una funzione iniziatica e nel loro percorso essi entreranno in contatto con i membri di una comune in cui verranno brevemente ospitati, con un avvocato alcolizzato incapace di accettare il suo posto in un sistema che non riconosce, altro escluso dal sogno americano, e con la crudeltà con cui la società reprimeva il dissenso attraverso una (in)giustizia sommaria e violenta.

Tutto, però, è contraddittorio: nella comune viene mostrata la vita a contatto con la natura, il senso di fratellanza e la libertà sessuale, ma essa è isolata dal resto del mondo e incapace di propagandare i propri ideali oltre i confini del loro territorio, mentre George, l’avvocato, pur decidendo di scappare con i due protagonisti continua a proteggersi con la sua appartenenza alla classe borghese e con i soldi del padre. Il percorso è accidentato, ma i due protagonisti riescono a realizzare il sogno di arrivare a New Orleans dove, nascostisi in un cimitero insieme a due prostitute, avranno un trip lisergico con cui Hopper mostra tutta l’illusorietà del viaggio. Easy Rider è stato realizzato nel 1969 e già allora, in un momento in cui i tumulti sociali erano ancora forti, il regista era stato in grado di cogliere tutte le contraddizioni del Sessantotto e con il drammatico finale ha mostrato una doppia simbolica morte: quella dell’American Dream e quella della controcultura.

Il grande freddo: i postumi
Al risveglio non capiamo dove siamo e chi siamo, potrebbero essere passate sei ore come quindici anni. Abbiamo solo una certezza: il mal di testa che ci toglie la capacità di pensiero. Facendoci spazio fra una fitta e l’altra proviamo a mettere insieme i cocci di quello che è stato, giurando ancora una volta di non cascarci più. I sogni e le illusioni della sera prima sono spariti, rimaniamo soli a pensare…
Lawrence Kasdan, così come Dennis Hopper, il Sessantotto lo visse in prima persona, ma a differenza del regista di Easy Rider, tredici anni più grande, partecipò a quei momenti nel fremente ambiente collegiale, elemento che ha segnato profondamente la realizzazione de Il grande freddo. Questa pellicola sembra iniziare esattamente dove era terminata quella precedente: con una morte violenta. Sono passati quindici anni dal 1968 e tre lustri dopo Kasdan conferma l’idea espressa da Hopper, qualcosa è morto e il tempo non l’ha resuscitato, anzi l’indifferenza ne ha cancellato i ricordi.

Alex, il cui suicidio è il pregresso non mostrato che mette in moto le vicende del film, è un corpo in assenza, non apparirà mai, eppure è il vero protagonista morale dell’opera. A quindici anni di distanza un gruppo di vecchi amici del college si ritrova al suo funerale, circostanza che li obbliga a confrontarsi con il proprio passato e con il peso da troppo tempo ignorato delle loro scelte. I cambiamenti sono stati lenti e la loro coscienza sociale si è sempre più affievolita fino a sparire, ma rivedere dopo così tanto tempo delle persone con cui si è condivisa una parte importante della propria vita è come trovarsi di fronte a uno specchio che inclemente mostra una versione passata di noi.

L’ultima volta che erano stati insieme erano convinti militanti antiborghesi e antisistema, ora tutti, chi avvocato, chi attore di bassa lega, chi giornalista scandalistico, hanno trovato la piena realizzazione, la fama e la ricchezza omologandosi alle richieste della società contro cui combattevano. Il solo a non essere stato in grado di venire a patti coi propri ideali, di mettere da parte la morale e accettare di vivere in maniera agiata è stato Alex che però, essendo l’ultimo emblema di un’ideologia anacronistica e di una lotta esaurita, ha subito lo scacco del sistema che non è riuscito a sconfiggere: il suicidio è stato l’ultima stoica affermazione di sé. Egli è lo spirito del Sessantotto che aleggia sui suoi ex compagni, conducendoli verso un risveglio di coscienza e al confronto con interrogativi lasciati senza risposta sull’utilità della loro lotta e su cosa potrebbero fare ora per cambiare.

C’era una volta a… Hollywood: il rimpianto
Il dolore è sparito, non abbiamo neanche più quello per consolarci, e i frammenti hanno preso una forma. Abbiamo chiaro davanti ai nostri occhi ciò che è stato e questo ci fa stare peggio: sono mostri messi lì a ricordarci il fallimento. Continuiamo a pensare come sarebbe stato se avessimo agito diversamente e il rimpianto inizia a divorarci dentro…
Tarantino essendo nato nel 1963 è stato escluso dalla partecipazione attiva ai movimenti sessantottini e la narrazione che ne viene fatta in C’era una volta a… Hollywood deve passare, così come questo articolo, dai riferimenti a lui noti: quelli cinematografici. Le vicende dei due protagonisti, un attore e uno stuntman, si intersecano con la Storia modificandola e dando vita nel finale a un what if a cui, però, non cerca di dare risposte. I due eventi a cui si rifà il film sono la nascita della New Hollywood e l’eccidio di Cielo Drive in cui la Manson Family uccise Sharon Tate, il figlio che portava in grembo e altre quattro persone.

Sharon Tate, dipinta da Tarantino con grande amore, è la figura cardine in cui si incarna simbolicamente una doppia morte: quella di una stagione cinematografica e quella del movimento sessantottino. L’attrice, lavorando con registi come J. Lee Thompson, Mark Robson o Phil Karlson è stata una delle ultime muse della Hollywood classica, mentre nella vita privata era legata a Roman Polanski, uno degli autori simbolo della nuova ondata, e la sua morte è avvenuta per mano dei membri della comunità facente riferimento a Charles Manson, la cui immagine è stata strumentalizza come rappresentazione deviata della cultura hippy. Riscrivendo la Storia, Tarantino in C’era una volta a… Hollywood decide di salvare Tate e questa variazione lascia sensazioni contrastanti: da un lato c’è lo sconforto per la reale morte dell’attrice e per la consapevolezza di come un atto criminoso e irrelato agli ideali sessantottini abbia contribuito a porre fine alle speranze nate in quegli anni, dall’altro, invece, c’è la speranza data dall’invito a provare a cambiare la Storia e a combattere contro i Charles Manson odierni per creare un futuro migliore.
Auspici per cinema futuro: la nuova speranza
È passato tanto tempo, sembra mezzo secolo. Stiamo infrangendo la promessa di non cascarci di nuovo e mentre mandiamo giù un sorso di quel forte liquore il sogno riappare davanti ai nostri occhi. Il ricordo di cosa è successo però ci devasta, sappiamo che non è quello il modo. Ma il sogno ci piace, lo vogliamo. Appoggiamo il bicchiere, buttiamo via il liquore e con l’immagine chiara nella testa ci riproviamo, stavolta con più consapevolezza.