
Il magico schermo del disincanto
In memoria di Nobuhiko Obayashi
di Michele Bellantuono
Akira Kurosawa è sul set del suo film Sogni e si rivolge a un collega più giovane, che sta girando un documentario sulla lavorazione del film. Kurosawa gli confessa di sentirsi finalmente come lui, un autore amatoriale, in grado di prodursi i film in totale libertà. Una conquista importante nell’ambito di un’industria cinematografica fortemente condizionata dall’autorità come quella nipponica. Anni dopo, il regista del documentario spiegherà in un’intervista che per un artista essere liberi significa soprattutto poter realizzare qualcosa che nessuno ha mai realizzato prima: la libertà è secondo lui la cosa più importante per i cineasti.
Lo scorso 10 aprile quel regista ci ha lasciati: il suo nome è Nobuhiko Obayashi, nato nel 1938 a Onomichi, città affacciata sulle coste del Mare Interno del Giappone, scenario di molti suoi film. Il cancro lo tormentava già da alcuni anni, ma non ha impedito al tenace cineasta, autodefinitosi fino all’ultimo “filmaker amatoriale”, di continuare a dedicarsi alla settima arte, di cui Obayashi è stato un autore particolarmente originale, adottando nei suoi film più noti un approccio visivo fuori dagli schemi, anarchico, allucinatorio, volutamente a budget ridotto, quasi a voler trasmettere la sensazione che gli effetti speciali del suo cinema fossero nati da una fantasia infantile. Un’indole da sperimentatore artigianale e disinibito che non ha visto emuli e gli ha regalato una fama internazionale, specialmente dopo la riscoperta occidentale del suo film d’esordio Hausu (1977). Tra i cult più indimenticabili della storia del cinema giapponese, Hausu nasce dal compendio di forze creative che trascendono la tradizione cinematografica.

Un film estraneo a ogni schema previsto dalla catena produttiva, dunque, eppure realizzato grazie a uno dei colossi produttivi del Sol Levante, la Toho, che infine si convince ad assegnare anche la regia al suo autore. Il film è un esperimento audiovisivo in cui Obayashi sposa un’idea di regia e di estetica che possiamo definire più dadaista che surrealista, dato che su ogni elemento dell’opera prevale la volontà di decostruzione del canone stilistico e un inaspettato approccio umoristico. Nato inizialmente dall’idea di replicare in Giappone il successo di Lo squalo di Spielberg, il film prende una forma inaspettata quando Obayashi decide di affidarsi alla consulenza della figlia, prendendo spunto dalle sue paure. Da questo insolito scambio, mediato dalla geniale visionarietà di Obayashi, nascono alcune delle deliranti scene di Hausu, in cui alcuni archetipi del genere horror (come la magione posseduta, la strega cannibale, l’innocenza delle giovani protagoniste) si arricchiscono di sfumature, sfaccettature di una visione caleidoscopica, un’allucinazione di sangue, arti tagliati e oggetti animati pronti a sfidare le leggi di una logica che spesso in diversi film di Obayashi tradisce le aspettative di una visione “normale”, per essere sostituita da misteri e incantesimi (basti pensare alle dimensioni parallele di Aula alla deriva oppure al magico scambio di corpo che avviene tra due scolari in Tenkosei). Nonostante ciò, considerare Hausu alla stregua di un prodotto “di genere” legato al popolare filone delle case maledette sarebbe riduttivo, poiché non terrebbe conto di alcuni aspetti importanti legati alla bizzarra sperimentazione di Obayashi. È evidente la rivisitazione della tradizione del genere orientale definito kaidan, ovvero del racconto a tema soprannaturale, contaminato qui da un tono grottesco, deformato, in cui la componente macabra si alterna a quella comica e in cui il linguaggio cinematografico è bombardato dall’estetica pop tipica del mondo pubblicitario, in cui si è formato il giovane Obayashi. Anche per i registi giapponesi più apertamente eccentrici e alternativi come Obayashi, la tradizione resta una fonte inesauribile di soggetti narrativi e personaggi. In Hausu è ad esempio recuperato il motivo folkloristico del bakeneko, un demonietto dalle forme feline, che nel film si manifesta come un gatto bianco in cui è racchiusa la linfa maledetta della casa.

Un po’ come già accadeva nel 1968 nel celebre horror di Kaneto Shindō, Kuroneko (“gatto nero”), in cui lo spirito del titolo incarna la vendetta di due donne violentate e uccise da samurai reietti, in periodo di guerra civile. I demoni di Shindō e Obayashi sono accomunati da questo drammatico aspetto: anche la maledizione della strega in Hausu ha radici nella Seconda guerra mondiale, nella quale ha perso la vita il suo uomo. Sotto la patina di una narrazione allucinata ed eccessiva, emerge così la profondità di un autore che sente il peso del suo bagaglio generazionale. Obayashi, ricordato per averci regalato uno dei migliori esempi di cinema fantastico sperimentale in salsa pop, è in realtà uno degli autori più saldamente legati al tema della memoria storica. Lo dimostra Hausu, in cui il conflitto mondiale causa di fatto l’infestazione di quella che doveva essere la dimora di una due coniugi innamorati, così come molte opere successive, tra cui un’intera trilogia, completata nel 2017 con il film Hanagatami. Obayashi tuttavia non sente di essere annoverato tra i registi antibellicisti. Il regista racconta che i giapponesi della sua generazione, nati durante la guerra mondiale (come l’amico Isao Takahata, regista di Una tomba per le lucciole), hanno imparato una dolorosa lezione: una visione dualistica della realtà, in cui la guerra è voluta dai cattivi e la pace dai buoni, è lontana dalla verità storica. Artista visionario ma non disilluso, Obayashi insegna che il lieto fine, lo scenario della pace definitiva, è una mera soluzione narrativa. I suoi film ci insegnano invece il valore della libertà e del ricordo, evocando in chiave personale sullo schermo la memoria sofferta di una generazione nata nel pieno del conflitto.