Massimalismo o morte: il cinema di Zack Snyder

Da 300 a Justice League, la parabola del cantore del superumano

di Marco Triolo

C’è stata un’epoca in cui il trend principale di Hollywood non erano i biopic con gli attori truccatissimi, i sequel con gli attori vecchi o gli universi condivisi con gli attori che si chiamano Chris. Nei primi 2000, a titillare le fantasie capitaliste dei dirigenti degli studios erano invece i remake dei classici dell’horror. Per lo più si è trattato di una piaga sociale, ma qui e là sono spuntati dei film validi e, tra questi, L’alba dei morti viventi (2204), remake del classico Zombi (1978) di George A. Romero, si è affermato a sorpresa come uno dei più virtuosi esempi del filone. Per carità, eravamo lontanissimi dalla cruda e lucidissima critica alla società dei consumi del Maestro, ma L’alba dei morti viventi restava comunque un horror apocalittico di rara cupezza e angoscia.

Al timone di quel progetto, scritto da un imberbe James Gunn, c’era niente meno che il futuro Mr. Snyderverse Zack Snyder, fresco fresco di videoclip e ancora troppo inesperto per mettersi a fare lo splendido con quel massimalismo sudato e patinato per cui sarebbe diventato famoso solamente due anni dopo con 300, film che segna la nascita del VERO Zack Snyder. Adattamento della celebre graphic novel di Frank Miller incentrata sulla battaglia delle Termopili, 300 lancia un altro trend: quello dei film tratti da fumetti che usano il testo originale come storyboard, ricalcandone lo stile visivo e addirittura le vignette in dettaglio. 300 divide da subito: c’è chi ama il film e le sue esagerazioni, chi invece non sopporta quella patina da videoclip sessualmente ultra-carico, quel groviglio di corpi palestrati e unti e, ma questo era già nel fumetto, la retorica tutta maschia e destrorsa degli spartani.

Da lì in poi Snyder non sarebbe più tornato indietro, abbracciando per sempre il ruolo di cantore del superumano. Il successivo Watchmen (2009) compie un mezzo miracolo, adattando il capolavoro a fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons considerato da molti (Terry Gilliam compreso) inadattabile. Si tratta forse del capitolo più felice della filmografia di Snyder, anche se le malelingue potrebbero aggiungere un sentito “grazie al membro”, con un testo del genere alle spalle era virtualmente impossibile sbagliare del tutto. Eppure qui Snyder dimostra per la prima volta di – a seconda della vostra posizione su di lui – non capirci un membro o fregarsene bellamente del testo originale per dire la sua. In una storia che contrappone degli esseri più che umani, che si vestono con costumi sgargianti per combattere il crimine, e un vero e proprio dio in terra (Dr. Manhattan), Snyder decide che saranno tutti semidei imbattibili. Poco importa che si parli di tizi di mezza età, imbolsiti e tristi: a Zack interessano i superuomini.

E, finalmente, dopo la bizzarra doppietta Il regno di Ga’Hoole (suo unico film d’animazione) e Sucker Punch, Snyder ottiene il lavoro della vita: rilanciare al cinema il superuomo per antonomasia, Superman. L’uomo d’acciaio (2013), prodotto e influenzato creativamente da Christopher Nolan, è la conferma definitiva della visione del mondo di Snyder, che concepisce i supereroi come delle divinità bellissime, statuarie, lontane dalla sfera umana, scese dall’alto per salvare la feccia a loro piacimento. Non c’è empatia, solo, eventualmente, la pietà che muove gli esseri superiori a non schiacciare le formiche di quando in quando. E, nel caso di Superman, questo è un bel problema. Snyder sembra non riuscire a comprendere quel personaggio ottimista e solare, simbolo di speranza, e lo trasforma in un cupo vendicatore, tormentato e rabbioso. Al punto che, quando lo fa scontrare con il vero cupo vendicatore della DC in Batman v Superman: Dawn of Justice, è lo scontro del secolo tra due visioni del mondo diametralmente opposte: dark vs un po’ più dark.

Dopo la débâcle di Justice League (2017) – progetto da lui lasciato in corsa per via del tragico suicidio della figlia – Snyder, complice il Covid, riesce a convincere i piani alti della Warner Bros. a fargli completare la sua visione originale del film. Il risultato, Zack Snyder’s Justice League (2021), è forse il monumento definitivo al suo massimalismo ipertrofico, fatto di muscoli al ralenti ed epica gratuita ai limiti del ridicolo. È anche uno dei pochi casi della sua filmografia in cui questa visione assurda ed estenuante assume un senso e riesce a dire qualcosa, pur nelle sue esageratissime quattro ore di durata.

Il successivo Army of the Dead, suo ritorno agli zombie delle origini, è un divertissement che lascia poco il segno, perché Snyder tenta di fare il simpatico realizzando un heist movie virato a commedia in un’ambientazione post-apocalittica, fallendo praticamente su tutti i fronti. Il film è comunque fondamentale per capire il regista, e forse per rispondere alla domanda che ci ha condotti qui. È infatti in Army of the Dead che salta all’occhio più che mai quanto Snyder sia incapace di gestire i registri e lavorare sui toni: dategli una storia epica e ve la farà E-P-I-C-A. Dategli del materiale un po’ più complesso e si perderà come un bambino al parco giochi.

Il futuro ci porterà il film Netflix Rebel Moon, che dovrebbe essere il primo di una saga sci-fi con cui il Nostro intende regalare al mondo il suo Star Wars. Probabilmente sarà terribile. Sicuramente ne parleremo per anni.