Dalla pagina allo schermo

Quattro casi-studio del cinema italiano

di Luca Romeo

Risolvi il problema. Dati quattro registi e sceneggiatori famosi, sapresti dire chi di loro quando impugna la macchina da presa è più fedele al copione scritto? Per condurre questo esperimento abbiamo scelto quattro nomi importanti che si distinguono tra loro per epoca o per scuola artistica: Federico Fellini a rappresentare il secondo dopoguerra, Bernardo Bertolucci per quel che riguarda la Nouvelle Vague italiana degli anni 70, Massimo Troisi quale rappresentante del mondo apparentemente scanzonato del decennio successivo e Nanni Moretti come testimone ultimo della settima arte nostrana in ordine temporale. Ebbene, le loro sceneggiature rispecchiano i loro film? Lo abbiamo verificato sfogliando i copioni e contemporaneamente guardando le pellicole. Quando possibile.

Partiamo da Fellini. Sarebbe stato improbabile selezionare, per questa comparazione, capolavori come La dolce vita e , notoriamente “anarchici” a livello di scrittura, per questo motivo la scelta è ricaduta su una pellicola più lineare dell’autore riminese, Le notti di Cabiria (film del 1957, sceneggiatura edizione Garzanti del 1981). «Caro editore – esordisce Fellini – non ho conservato o non trovo più il trattamento originale de Le notti di Cabiria. Ad essere sincero non mi ricordo nemmeno se lo abbiamo mai scritto». Alla fine il manoscritto salta fuori e il cinefilo medio si aspetta sia ben diverso dal prodotto finito, si immagina un regista che lascia molto spazio agli attori. A conti fatti, però, il risultato è sorprendente: la sceneggiatura è seguita abbastanza fedelmente. Certo, si potrebbe far notare qualche discrepanza tra i due incipit e che, probabilmente in fase di montaggio, Fellini inserisce una sostanziosa sequenza su una processione dedicata alla Madonna (solo accennata in sceneggiatura) mentre taglia diverse altre scene: nulla di veramente incisivo. Il cambiamento più vistoso avviene quando Cabiria è sul palco dell’ipnotizzatore: secondo il copione il pubblico ride ben quattro volte e si prende gioco di lei, nel film la osserva in un silenzio che, a posteriori, risulta rispettoso. Un esempio di come un autore sappia migliorare la sua opera non con la penna, ma direttamente con la cinepresa.

Passando a Bertolucci, ecco Ultimo tango a Parigi (film del 1972, sceneggiatura Einaudi del 1973). Sappiamo ciò che state pensando e no: la scena del burro non è dettagliata sulla sceneggiatura, ovviamente. Ma veniamo alla differenza clou: all’inizio del film, Maria Schneider non è infastidita dallo sguardo dello sconosciuto Marlon Brando visto per strada e poco dopo, mentre secondo il copione dovrebbe lasciargli il passo incrociandolo su una strada stretta, non lo incontra nemmeno. Come se l’autore avesse cambiato idea: prima avrebbe voluto che i due futuri amanti si conoscessero in un’atmosfera di disagio da parte della donna, poi sceglie, invece, che l’incontro sia fortuito e senza preamboli, che nasca e si consumi esclusivamente nell’appartamento. Come per evitare un pregiudizio nello spettatore. Oltre all’iper-citata scena del burro, poi, Brando sembra prendere più volte l’iniziativa a dispetto della sceneggiatura: quando arrabbiato tira un pugno a una porta (avrebbe dovuto solo sbatterla) e quando suona un’armonica ostentando spensieratezza con l’amante mentre le parla “da duro”.

Chi invece siamo sicuri improvvisi alla grande è Troisi in Ricomincio da tre (film del 1981, sceneggiatura Feltrinelli dello stesso anno), scritto con Anna Pavignano. Niente di più falso: le battute accennate, le frasi mozzate, il tono insicuro del protagonista sono sorprendentemente già tutti su carta. Un esempio dal testo: «Steva chiammanno a chest’ora… ‘Aità! ‘Aità ccà sta… a ggente malata!… ‘Aità, ‘Aità, mannaggia ‘a miseria, te facesse nu musso accussì, tutte ‘e ssere m’o ffaje ‘sto fatto, mannaggia…». Troisi, attore vero e proveniente dal teatro, con Pavignano lavora molto a tavolino e crea al 100% il suo personaggio, che poi interpreta in maniera magistrale. Senza uscire dagli schemi, come invece saremmo portati a credere, studiando persino dove lasciare le frasi in sospeso, caratteristica tipica del suo Gaetano, pardon, ‘Aità.

Chiudiamo con Habemus Papam (in libreria per Feltrinelli e al cinema nel 2011). Con Nanni Moretti dimenticatevi di poter seguire la sceneggiatura guardando il film, come si è fatto con gli altri tre. L’autore scrive con Francesco Piccolo e Federica Pontremoli un copione che poi viene stravolto: taglia, incolla, cuce, disfà, sposta le scene. Interessante come, secondo copione, la guardia svizzera che aveva accettato di fingersi il Papa per tranquillizzare i cardinali avrebbe dovuto ribellarsi e piagnucolare: «Non voglio andare via! Nessuno in cinquecento anni è stato vicino al Papa come le guardie svizzere!», epilogo interessante, ma che forse non ha convinto Moretti al montaggio. E l’immancabile scena della danza collettiva sulle note di Todo cambia? Sembra strano, ma il regista deve averla fatta improvvisare ai cardinali in fase di ripresa, perché nella sceneggiatura non c’è.

Ebbene, il primo Fellini è fedele a ciò che scrive (se si ricorda dove ha messo la sceneggiatura…), Bertolucci la rende poco più che un soggetto da prendere e stravolgere lasciandosi influenzare dalle idee dell’ultimo momento e Moretti esaspera questa voglia di modificare tutto anche a giochi fatti. In mezzo Troisi, quello che sembra improvvisare dall’inizio alla fine e che invece è l’artigiano più attento in fase di lavorazione. Chi dei quattro ti ha stupito di più?