Il novecento di Angelopoulos
La salvezza nel ricordo
di Federico Mango
«Teneramente malato di memorie infantili, / sogno la nebbia e l’umido delle sere d’aprile», scriveva Esénin nel 1920, portando a compimento una delle sue opere più celebri, Confessioni di un teppista.
L’opera più esemplificativa del compianto regista greco, L’eternità e un giorno, Palma d’oro a Cannes nel ’98, si apre con una domanda sul significato del tempo, a cui un ragazzo risponde: «Il nonno dice che il tempo è un bambino che gioca con gli ossicini in riva al mare». È il fanciullino pascoliano, che trova la meraviglia nell’umile e canta il miracolo delle piccole cose.
Il tempo-bambino, giocando, conscio della propria età, tenta di cristallizzare l’istante per preservarlo dalla decadenza. Tempo che i personaggi di Angelopoulos, irrisolti, sospesi nell’attesa – scevri di ogni appartenenza e legame concreto con la storia, la propria e quella del proprio popolo – tentano invano di ricondurre a una semantica nuova, libera dal momento presente – orrendo perché vivido – rifugiandosi nella memoria, salvifica purché eterea.
Nonostante la sua poetica incarni una dimensione sempre esterna, dove il tempo viene esautorato dalla sua funzione cronologica, e dove nella dimensione onirica si rifugge il dolore rinunciando alla corporeità dell’essente, sostituendola con l’evanescenza del sogno, è proprio nella figura del cineasta ellenico che si materializza lo Zeitgeist della Grecia, il suo trascorso intimamente autentico.
Attraverso quarant’anni di carriera, Angelopoulos ha raccontato la tragedia della sua terra, il suo volto eternamente luttuoso. Lui stesso esule, come il poeta Dionysios Solomos, personificazione storica del regista stesso – autore di L’inno alla libertà, adottato nel 1864 come inno nazionale, quale lamentazione elegiaca di un fasto mai realizzatosi, sempre castrato dalla perpetuazione traumatica dell’oppressione, subita o praticata, nei popoli balcanici – e delle sue creature liriche, tra cui Alexandros, l’intellettuale che sempre ne L’eternità e un giorno si appresta a perdersi nella nostalgia e nel rimpianto – rassegnato al decadimento proprio e collettivo, la senilità di un popolo dilaniato dalla sua stessa dimenticanza. Malinconia e mestizia, protagonisti cardini in tutta la sua filmografia, sono stati d’animo che diventano luoghi e sensazioni precisi, carichi di significato. È la natura spesso a farsi simbolo delle impressioni: la pioggia costante e regolare, il mare come orizzonte sfumato dove si ricerca il senso del viaggio, intrapreso – Viaggio a Citera – o rimpianto – ancora, L’eternità e un giorno – la neve, tappeto sonoro che copre il pianto sommesso di una comunità intera – Lo sguardo di Ulisse, Paesaggio nella nebbia – e, appunto, la nebbia, quella nebbia umida anelata da Esénin, cortina emozionale che vela il sentimento, inafferrabile per incorporeità così come solida caligine, fumo e polvere riarsi dalle bombe che smembrano Sarajevo nella disperata ricerca di A, altro fantoccio eccellente del regista, esso stesso regista ne Lo sguardo di Ulisse, impegnato nella sua personale ricerca delle dimenticate bobine prodotte dai Fratelli Manakis, i primi cineasti in area balcanica, dispositivi di memoria testimoni di un’eredità che nessuno può più raccogliere, perché si è persa assieme alla dignità violata, e quindi all’identità, dei popoli che la custodivano.
Ecco allora che poeti e registi, profughi – La sorgente del fiume – giornalisti – Il passo sospeso della cicogna – e tutte le creature mitiche di una Grecia diafana, Nebula della Storia, si incontrano nel ricordo, strumento utile per riattingere da quella fanciullezza – ancora presente, arginata nel bacino della rappresentazione – necessaria per scacciare l’inquietudine della propria epoca, così come mezzo per elaborare i decorsi traumatici, come l’anziano poeta solo sulla spiaggia, finalmente libero dagli spettri dell’appena ritrovata e già dissolta letizia, estemporanea e per questo ancora più penosa, mentre in La sorgente del fiume, la memoria traumatica sventra l’amore di una madre per i suoi figli gemelli, soldati impegnati nella guerra civile per le due opposte fazioni – due giovani efebi che assurgono a simbolo del fraticidio di un popolo che nel corso del Novecento è stato perennemente vessato e umiliato, dalla disfatta delle guerre mondiali alla sopraccitata guerra civile, dalla dittatura fascista di Metaxas a quella dei Colonnelli tra il ’67 e il ’74, anni in cui il regista iniziava la propria carriera di cineasta con coraggiose opere di denuncia, nonostante l’azione della censura, con la cosiddetta “Trilogia storica”, dove già andavano a delinearsi i principali stilemi e le tematiche ricorrenti della sua poetica: l’eco della reminiscenza come mezzo assimilativo della tragedia, ma anche riparo e cura lenitiva, dalla stessa e dai suoi derivati, il tempo refratto e scardinato dalla Storia, che assume la propria sanguinosa traiettoria, sgraziata, improntata al massacro e alla cancellazione dell’innocenza, della purezza casta degli infanti – il piccolo immigrato albanese in vendita ne L’eternità e un giorno, i fratellini Voula e Alexandros violati ne Il passo sospeso della cicogna – quell’infanzia dove in ultima istanza cercano asilo tutte le anime disperate generate dallo sguardo malinconico, per questo estremamente lucido, di Theo Angelopoulos, tra i più grandi poeti del Novecento.